Il padre generale – 2 – Padre e figlio al capolinea

Il padre generale - 2 - Padre e figlio al capolinea

Tito Manlio Torquato e suo figlio Tito (1): il loro non è affatto un esempio di rapporto padre-figlio, ma all’opposto ne rappresenta il capolinea, rintracciabile al tempo stesso sia nell’era antica che in quella moderna. (2)
«Come padre ti abbraccio, come capo dell’esercito ti condanno a morte. Questa fu la bella trovata di quel generale romano (…) il quale – avendo dato in battaglia un certo ordine pena la morte ai trasgressori, e all’ordine avendo trasgredito proprio suo figlio, che tuttavia, proprio con la trasgressione fece vincere la battaglia, le cui sorti erano compromesse dall’infausto ordine paterno – pensò bene di cavarsela prima abbracciandolo e poi facendo ammazzare il giovinotto.» (3)
Così Achille Campanile, il maggiore umorista italiano del Novecento, ripercorre nel suo stile sapido e arguto la triste vicenda. (4) Il suo non è un puro divertissement. Il suo umorismo raffinato coglie i tratti psicologici e psicopatologici dei personaggi storici o letterari che rivisita. In questo caso egli ricava una morale ben diversa da quella di Tito Livio, attento solo alla “ragion di stato” della Roma imperiale: (5)
«La decisione del generale potrebbe a prima vista essere considerata anche un esempio di sottigliezza d’argomentatore che spacca il capello (e poco importa se, per spaccarlo, spacca anche la testa che c’è sotto; e se questa testa è di suo figlio). Però, una volta ammessa nel generale una così notevole capacità di sdoppiarsi, di distinguere fra padre e capo dell’esercito, la sua decisione appare la più stolta proprio a fil di logica, oltre che la più crudele e inumana sia dato immaginare. Difatti, come padre egli abbracciò. Evidentemente per la vittoria e non per la trasgressione; ché sarebbe poco verosimile che un padre abbracciasse il figlio per aver questi trasgredito a un ordine del generale. Come capo dell’esercito, punì. E che cosa punì? E’ ovvio: la trasgressione. Sarebbe quanto mai assurdo che il comandante supremo delle forze armate punisse un sodato (e quale punizione!) per il solo fatto che egli ha causato la vittoria del proprio esercito (a meno che non si tratti d’un soldato nemico). (…) Viceversa egli sarebbe stato più logico, miglior padre e miglior generale, e anche meno dannoso al giovinotto, se avesse adottato la soluzione opposta. Se, cioè, avesse utilizzato la possibilità di sdoppiarsi al contrario di come fece, lasciando la severità al padre invece che al generale, e le considerazioni militari a questo invece che a quello. (…) Tutti sanno essere severi come generali: è come padri che vi voglio vedere; e tutti sanno essere amorosi come padri, ma provate a esserlo come generali! Ma forse nella storica frase di quel generale va anche cercata una punta di gelosia di stratega scornato.» (6) (corsivo mio)
Campanile imputa a Tito Manlio Torquato: a) di non aver saputo pensare, «una volta ammessa una così notevole capacità di sdoppiarsi», una diversa e migliore soluzione; b) di essersi lasciato guidare da quella «punta di gelosia di stratega scornato». Qui sta la chiave della diagnosi, ovvero del giudizio sull’intera vicenda: quel padre-generale fu invidioso del successo del figlio. In ciò non ebbe nemmeno bisogno di derogare dalle prerogative del pater familias il quale, come sappiamo, aveva, nell’antica Roma, potere di vita e di morte sui figli. (7)
Senza questa grave invidia patologica, egli, appresa la notizia della vittoria sull’esercito nemico, avrebbe potuto vantarsene a propria volta e dichiarare, di fronte all’esercito e ai media di allora, che tutto si era svolto secondo le sue previsioni: il comando di non sferrare l’attacco si era rivelato un efficace mezzo per ingannare il nemico, e la felice sortita del figlio faceva anch’essa parte del piano. Quale piano? La vittoria di Roma!
Sarebbe stata una ben diversa strategia, (8) e un caso di partnership tra padre e figlio, entrambi uomini pubblici, entrambi votati al successo della Repubblica romana. Chi avrebbe potuto trovare da ridire? Invece il generale figlicida dichiarò a parole l’amore per Roma, mentre di fatto uccise colui che l’aveva davvero difesa.
Inoltre: non sembra strano e inspiegabile che lo stesso Tito Manlio, divenuto padre, abbia a sua volta trattato così crudelmente il proprio figlio? Egli, che era stato un ultrà nel difendere il padre da cui era stato punito, restò fissato alla «figura paterna», facendosi troppo uguale a suo padre. Si chiama identificazione, di cui vediamo qui il vero nocciolo: l’odio. Ecco che cosa muove il passaggio dall’ingiustizia subìta (ad opera del padre) a quella arrecata (al proprio figlio): i conti in sospeso con la propria istanza di vendetta.
Parricidio e figlicidio in questo caso si congiungono nel pensiero e nell’atto di uno stesso individuo.

NOTE
1. Rinvio a: Il padre generale – prima parte, apparso in questa stessa rubrica il 2 febbraio 2013.
2. Penso per esempio a Il Principe di Homburg (1810) del drammaturgo Heinrich von Kleist (1777-1821), figlio di un generale prussiano. Messo in scena per la prima volta nel 1824, questo dramma romantico presenta forti analogie con la storia dei Manlii. Von Kleist morì suicida con la sua donna prima di pubblicarlo.
3. A. Campanile, Vite degli Uomini Illustri, Rizzoli, 1975.
4. A. Campanile, Quel generale romano, op. cit., pagg. 33-38.
5. Nello stesso libro altri personaggi sono tratteggiati e processati allo stesso modo, ovvero secondo il sapere proprio della psicopatologia: ad esempio Socrate, Talleyrand o Voltaire. Fin da bambino ho appreso da mio padre Nino Genga un certo gusto per gli umoristi italiani. Tramite le loro pagine, Campanile, Guareschi e Mosca erano spesso illustri ospiti della nostra tavola.
6. Vite degli Uomini Illustri, op. cit., pagg. 34-36.
7. L’argomento è accostato anche da G.B. Contri in Pater non familias, Blog Think!, 2-3 febbraio 2013: «Nell’antica Roma il pater familias aveva potere di vita e morte sui figli (vitae necisque potestas), poi decaduto ma rimasto anche oggi nel furioso Padre Ideale, padre di tutti i paranoici e querulomani sempre lì a brandire “diritti”».
8. Si tratta della distinzione tra strategia e tattica: le probabilità di successo sono maggiori allorché si è capaci di predisporre le proprie azioni a lungo termine tenendo conto della possibilità di esiti diversi: l’apporto dell’altro, soprattutto nel caso si abbia un partner, è sempre incalcolabile a priori. Ciò vale in campo militare come in quello economico: si veda a questo proposito: Luca Flabbi, Teoria dei giochi in economia, (2005), in: http://www.studiumcartello.it/Public/EditorUpload/Documents/CORSO_INTERVENTI/050514SC_FL3.pdf

Illustrazioni di Chiara Ciceri

Pubblicato in Father & Son