Il padre generale – prima parte

Il padre generale - prima parte

Nella sua storia di Roma, Ab Urbe Condita, Tito Livio (1) narra gesta epiche in cui si intersecano cronaca e leggenda. Il suo intento educativo nei confronti dei contemporanei (I sec. a.C.) è palese. Il suo racconto ci permette di entrare nella casa, o meglio nella discendenza, della gens Manlia, una delle più influenti famiglie patrizie della Roma repubblicana. Seguiremo le loro vicende per un breve tratto: il ventennio intorno alla metà del IV secolo a.C. Ho suddiviso il mio articolo in due parti: nella prima presento la ricostruzione dei fatti; nella seconda esporrò un’ipotesi e un commento.

Lucio Manlio Imperioso.
Eletto dittatore (2) nel 363, Lucio Manlio si attirò le inimicizie dei tribuni della plebe allorché, «bramoso com’era di far guerra agli Ernici, con una leva rigorosa irritò la gioventù; e alla fine, essendo insorti contro di lui tutti i tribuni della plebe, o per forza o per pudore, depose la dittatura» (3) . Ciò non bastò a placare il tribuno Marco Pomponio, che infatti lo citò in giudizio per avere fustigato e imprigionato i renitenti alla leva. Tra questi vi era anche il figlio di Lucio, Tito Manlio. Pomponio accusò Lucio «di aver bandito il giovane figlio, che di nulla era stato trovato colpevole, dall’Urbe, dalla casa, dai Penati, privandolo della luce del Foro e di ogni rapporto coi suoi coetanei, e di averlo ridotto ai lavori servili, condannato quasi al carcere e all’ergastolo, perché qui, nella quotidiana miseria, imparasse, lui, giovane di nobilissima famiglia, figlio d’un dittatore, che era nato da un padre veramente imperioso. E per quale delitto? Perché era troppo rozzo nel parlare e aveva la lingua impacciata! Ma questo difetto di natura il padre avrebbe dovuto curarlo, se v’era in lui un briciolo d’umanità, oppure farlo ancor di più risaltare coi maltrattamenti? (…) Invece Lucio Manlio, per Ercole!, accresceva la sofferenza del figlio con la sofferenza, comprimeva ancor più la sua tarda indole (…) lo spegneva costringendolo a una vita selvatica e a una rozza educazione fra le bestie». (4) La mano dello storico, come si vede, non è certo tenera, ma rende bene l’idea: rozzo nel parlare, con la lingua impacciata, di indole tarda: il giovane Tito Manlio doveva essere un «ragazzone di borgata», a dir poco. E il padre Imperioso- di nome perché di fatto – giunse a vergognarsene, non tollerando che il suo rampollo non fosse corso ad arruolarsi in difesa di Roma.

Come il figlio difese il padre.
Una prima sorpresa: Lucio Manlio riuscì ad evitare il processo proprio grazie al figlio Tito, che non sopportava – narra Livio – di essere motivo dell’incriminazione del padre. Così, anziché ribellarsi, un giorno il giovane si presenta a casa del tribuno Pomponio e, dopo averlo convinto ad allontanare i servi facendogli credere di essere lì per allearsi con lui, all’improvviso lo minaccia con la spada, intimandogli di ritirare l’accusa contro il padre, altrimenti lo avrebbe ucciso all’istante. Pomponio, «impaurito perché vedeva luccicare dinanzi agli occhi la lama, lui solo ed inerme, essendo l’altro giovane e assai robusto (…) presta il giuramento secondo la formula impostagli». (5) Risultato: la plebe approvò che un figlio avesse osato tanto per il padre, e Tito, ammirato da tutti come esempio di amore filiale (pietas), cominciò in questo modo la propria carriera, venendo eletto tribuno militare «pur non avendo alcun merito civile e militare» e anzi avendo «trascorso la giovinezza in campagna, lontano dall’umano consorzio». Fino a qui, dunque, non vi fu spargimento di sangue.

Vent’anni dopo: i Romani contro i Latini.
Dal 361, Tito Manlio, che fu chiamato Torquato per avere strappato una collana dal collo ad un barbaro sfidato e vinto in duello, inanellò una serie di vittorie, su cui ora sorvolo. Basti dire che fu più volte console e dittatore a sua volta. Giungiamo così all’episodio centrale della mia ricostruzione. Eletto console per la terza volta nel 340 insieme a Publio Decio Mure, Tito Manlio dichiarò guerra ai Latini (340-338 a.C.), i quali avevano cercato invano l’alleanza dei Romani. La tracotanza del loro capo Annio, allorché fu ricevuto in Campidoglio, aveva irritato Tito Manlio, che convinse il Senato a votare all’unanimità per la guerra. Bisogna dire che molte, se non tutte le guerre, a ben vedere, sono motivate dall’odio tra «cugini», ovvero tra popoli o contendenti che risultano essere più prossimi di quanto ritengono. Molto opportunamente, Freud chiamò questo fenomeno narcisismo delle piccole differenze. (6) E’ il caso di questa guerra. Infatti Tito Livio sottolinea come i Latini fossero «perfettamente simili per lingua, per costumi, per armamento e soprattutto per ordinamenti militari: si erano trovati insieme, come compagni e colleghi (romani e latini, ndr), soldati con soldati, centurioni con centurioni, tribuni con tribuni, mescolati negli stessi presidi. Perciò (ed è questo il particolare che qui rileva, ndr) ad evitare che i soldati cadessero in qualche errore, i consoli intimarono che nessuno combattesse contro il nemico fuori dalle file». (7) Chi avesse disubbidito sarebbe stato condannato a morte.

Fu vera disobbedienza?
Il figlio del console Tito Manlio Torquato Imperioso, anch’egli di nome Tito, in quella guerra comandava uno degli squadroni a cavallo, e fu spedito in avanscoperta oltre il campo nemico. Fatto si è che il comandante dell’esercito nemico lo riconobbe e iniziò a sfotterlo, diremmo oggi. Il giovane Tito non si fece pregare e senza indugi accettò il duello, «dimentico pertanto dell’ordine paterno e dell’intimazione dei consoli». (8) Alla fine, egli infilzò il nemico con un colpo alla gola e tornò al proprio accampamento con le spoglie di questi, «ignaro del destino che lo attendeva, senza nemmeno sapere se avesse meritato una lode o un castigo». Ingenuamente. Era tutto fiero per l’impresa valorosa e vittoriosa, sapendo tra l’altro che il padre aveva esitato a sferrare l’attacco per via di certi sogni premonitori e per le risposte negative degli aruspici: insomma, fino al momento prima della sua sortita, tutti erano convinti che gli dei non fossero propizi a Roma.

L’epilogo: il figlicidio.
Ma ecco l’amara, terribile sorpresa. Il padre non lo guardò neppure ma convocò subito l’assemblea, proclamando la sua sentenza senza appello: «Poiché tu, Tito Manlio, senza portare rispetto né all’autorità consolare né alla patria potestà, hai abbandonato il tuo posto, contro i nostri ordini, per affrontare il nemico, e con la tua personale iniziativa hai violato quella disciplina militare grazie alla quale la potenza romana è rimasta tale fino al giorno d’oggi, mi hai costretto a scegliere se dimenticare lo Stato o me stesso (corsivo mio), se dobbiamo noi essere puniti per la nostra colpa o piuttosto è il paese a dover pagare per le nostre colpe un prezzo tanto alto. Stabiliremo un precedente penoso, che però sarà d’aiuto per i giovani di domani. Quanto a me, sono toccato non solo dall’affetto naturale che un padre ha verso i figli, ma anche dalla dimostrazione di valore che ti ha fuorviato con una falsa parvenza di gloria. Ma visto che l’autorità consolare dev’essere o consolidata dalla tua morte oppure del tutto abrogata dalla tua impunità, e siccome penso che nemmeno tu, se in te c’è una goccia del mio sangue, rifiuteresti di ristabilire la disciplina militare messa in crisi dalla tua colpa, va’, o littore, e legalo al palo». (9) Fu così che il figlio valoroso, emulo di cotanto padre, venne decapitato sotto gli occhi di tutto l’esercito ammutolito. Seguirono grida e imprecazioni ogni tipo e, di lì a poco, solenni funerali per lo sventurato eroe!
Tito Livio non si spinge ad elogiare il generale, ma certo si astiene dal condannarlo. Dal suo punto di vista ha ragione: la civiltà, come osserva Freud, comporta (sempre?) una rinuncia pulsionale. Tuttavia la narrazione, di cui ho riportato alcuni brani salienti, consente di formulare una congettura. La esporrò nel prossimo articolo, con cui concluderò il mio esame di questa «saga dei Manlii». (continua)

NOTE
1. Tito Livio, (59 a.C. – 17 d.C.), Ab Urbe Condita Libri CXLII. I brani citati sono tratti dall’edizione italiana con testo a fronte: Storia di Roma dalla sua fondazione, traduzione e repertorio di M. Scàndola, note di C. Moreschini, Classici BUR Rizzoli, Milano 2000, voll. 3° e 4°.
2. Il termine dittatore indica in questo caso una carica propria della Roma repubblicana, una sorta di magistrato straordinario.
3. Tito Livio, op. cit., VII, 5, pag. 263.
4. Ibidem, pag. 265.
5. Ibidem, p.. 267.
6. Freud introdusse questa nozione nel suo saggio Il tabù della verginità (1917, OSF, vol. VI) e vi ritornò in seguito in altre sue opere.
7. Tito Livio, op.cit. VIII, 6, pag. 19
8. Tito Livio, op. cit., VIII, 7, pag. 21. Egli racconta perfino le fasi dello scontro: leggendolo sembra di assistere a un torneo o al racconto omerico del duello tra Achille ed Ettore.
9. Ibidem, pag. 23.

Illustrazione di Chiara Ciceri

Pubblicato in Father & Son