Autore: Matti

  • La Strada Scarlatta

    3 Luglio 2025

    sala Abadan 
    di Anteo-Palazzo del Cinema, piazza XXV Aprile, 8 - Milano

    Regia di Fritz Lang,
    con Edward G. Robinson, Joan Bennett, Dan Duryea
    (USA 1945, b/n, 102’)


    La Strada Scarlatta

    Nessuno mi può giudicare? Il punto interrogativo è d’obbligo, se solo si estrae la frase dall’alone del successo nazional-popolare dovuto alla canzone di Caterina Caselli (Sanremo 1966).

    «Lo psicoanalista, si dice, “non deve giudicare”: con una cattiva frase si liquida la questione del giudizio.» (G.B. Contri, Lexikon psicoanalitico, 1987). È vero il contrario: il giudizio è una facoltà, il cui difetto è patogeno.

    Autentico capolavoro di Fritz Lang, il film mostra come l’impossibilità del giudizio possa siglare il passaggio dall’ingenuità alla demenza: «una storia beffarda di colpa e degradazione, in cui nessun personaggio si salva.» (P. Mereghetti)

    Un delitto resta impunito: fu una vistosa infrazione del codice Hays, al punto che all’inizio ne venne proibita la distribuzione nelle sale di New York.

    A chi non l’ha mai visto, consiglio di gustare quest’opera senza cercare o leggere alcunché circa la trama. Sarà l’occasione per un approfondimento sul tema del giudizio, cui abbiamo dedicato il Simposio annuale della Società Amici del Pensiero ‘Sigmund Freud’. La sessione conclusiva si terrà sabato 5 luglio presso il Centro Culturale di Milano.

    Info (leggere con attenzione)
    La proiezione è un evento ad inviti. Non vi sono biglietti da acquistare né occorre passare in biglietteria. Chi desidera partecipare può inviarmi il proprio nome e cognome inviandomi un’e-mail (no WhatsApp).
    Ingresso libero fino ad esaurimento posti, con precedenza a quanti mi avranno inviato l’e-mail. L’accesso alla sala Abadan sarà consentito a partire dalle 19.45.
    Inizio proiezione alle ore 20.

  • Shine

    terzo film del ‘Cine-seminario con la psicoanalisi’

    ONORA IL FIGLIO. L’XI COMANDAMENTO

    MIC, Viale Fulvio Testi 121 (MM5 Bicocca) Milano

    Regia di Scott Hicks
    con: Geoffrey Rush, Noah Taylor, Armin Müller-Stahl, Lynn Redgrave
    (Australia, GB, 1996, col., 105’)

     

    Leggi la scheda del film sul sito del MIC

    “Schiacciato dal padre che lo vuole musicista di successo, il giovane David Helfgott intraprende lo studio del pianoforte con un’ossessione che lo porterà al collasso nervoso e all’internamento psichiatrico” (Mereghetti). Troverà una via di uscita, nonché una “sistemazione” della propria patologia, nel matrimonio con l’astrologa Gillian Murray.
    Un biopic di successo, cui hanno collaborato il pianista Helfgott e sua moglie.
    Geoffrey Rush vinse l’Oscar come migliore attore protagonista. L’interpretazione di Noah Taylor (David adolescente), non è di minor valore.
    La storia di Helfgott e del suo rapporto con il padre può essere accostata a quella di Daniel Paul Schreber, il Presidente della Corte d’Appello di Dresda vissuto a cavallo di ‘800 e ‘900, cui Freud dedicò un saggio decisivo e insuperato circa l’interpretazione della paranoia.

    Sarà con noi Barbara Sorrentini, giornalista di Radio Popolare e Direttrice artistica del Festival dei beni confiscati alle mafie.

    INFO
    MIC, Viale Fulvio Testi 121 (MM5 Bicocca) Milano, 23 marzo 2017.
    La proiezione avrà inizio alle 20.30. Raccomando di arrivare alle 20.15.
    I posti sono limitati. La prenotazione è obbligatoria.
    Se è interessata/o, invii al più presto l’adesione all’indirizzo
    alcinemaconfreud@glaucomariagenga.it. Riceverà conferma via email.
    È gradito un contributo alle spese a partire da 5 euro.

  • Nel nome del padre del figlio e del… profitto*

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    Un’idea nuova

    In un articolo pubblicato nel novembre scorso sul suo blog Think!, Giacomo Contri torna a scrivere della «Trinità, di cui nessuno parla mai eppure il cristianesimo è tutto lì: una combine razionale e giuridica trattandosi di tre persone distinte e operativamente correlate, almeno nella versione cattolica (“procedit”) che resta incompiuta. […] Lo psicoanalista che sono, o meglio il pensante freudiano che sono, non può non osservare la seguente evidenza: tra quei tre (non due, Padre-Figlio) si produce una legislazione tale da non dare luogo al disastro legale descritto da Freud nella povera dualità Padre-Figlio, con inconsistenza paterna e parricidio filiale, sotto gli occhi impietosi delle spettatrici, non sedotte ma abbandonate.»[1]

    Mi sono detto: ecco una pietra miliare per l’inchiesta che ho iniziato qualche anno fa in questa rubrica. Siamo di fronte ad un’idea nuova, chiara e distinta come quelle che piacevano a René Descartes: il tema del rapporto padre-figlio va preso via Trinità, affinché non sia uno sfacelo (Zerstörung è la parola usata da Freud per indicare il destino del complesso edipico nella patologia).

    Un passo avanti, certo, a condizione di comprendere e assumere la definizione che Contri propone della terza persona della Trinità. Intrigante.

     

    Papa Francesco

    Appena ho letto le righe riportate sopra, il mio pensiero è andato alla breve omelia che Papa Francesco ha pronunciato nella cappella di Santa Marta nel maggio scorso: «Ma noi, nella nostra vita, abbiamo nel nostro cuore lo Spirito Santo come un ‘prigioniero di lusso’: non lasciamo che ci spinga, non lasciamo che ci muova. Fa tutto, sa tutto, sa ricordarci cosa ha detto Gesù, sa spiegarci le cose di Gesù. Soltanto – lo Spirito Santo – non sa fare una cosa: cristiani da salotto. Questo non lo sa fare! Non sa fare ‘cristiani virtuali’ ma non virtuosi. Lui fa cristiani reali, Lui prende la vita reale così com’è, con la profezia del leggere i segni dei tempi e ci porta avanti così. E’ il grande prigioniero del nostro cuore. Diciamo: “E’ la terza Persona della Trinità” e finiamo lì…».[2]

    L’omelia – poco più di due minuti stando a quel che ho trovato sul web – è stata riportata da L’Osservatore Romano e dal sito del Vaticano con un azzeccatissimo titolo redazionale: “Perfetto sconosciuto”. Certo con l’assenso del Papa il quale, non essendo nato ieri, è consapevole di questa ignoranza in casa propria.

     

    Eugenio Scalfari

    Interessante anche l’articolo “Lo Spirito Santo nella mente del laico”, con cui l’inossidabile fondatore de la Repubblica ha subito ripreso quel titolo, chiedendosi: «Chi è costui? Fa parte del nostro mondo? O soltanto di quello dei credenti? Il tema è fondamentale per gli uni ed anche per gli altri ed è lo Spirito Santo che fa parte del mistero trinitario.»[3]

    Da eccellente comunicatore qual è, Scalfari dedica la prima metà dell’articolo ad illustrare i termini della questione. Il suo è un laico bigino ad usum dei non credenti, ma anche di quei credenti divenuti “analfabeti di ritorno” in materia di dottrina cattolica.[4] Ma poi, di fatto, non risponde all’interrogativo che pure intende rilanciare (“che cosa fa lo Spirito Santo?”). E il seguito dell’articolo è assai più debole della prima parte, limitandosi a noterelle antropologiche: niente di nuovo sotto il sole.

     

    Giacomo B. Contri

    Giacomo Contri propone di intendere quel “perfetto sconosciuto” come il profitto… in persona.[5]

    Già diversi anni fa aveva accostato questo stesso tema, commentando le righe con cui l’evangelista Luca, poco prima del Nunc dimittis, presenta Simeone: «uno che non ha altro desiderio o ambizione (prosdekòmenos: in attesa) che la mobilitazione in libertà (paràklesin) del popolo privilegiato (Israel); una proprietà – quella di un tale desiderio – associata a quella dell’avere l’assistenza intellettuale del Mobilitatore per eccellenza, chiamato “Santo Spirito”. (…) Quanto al tradurre paràklesis con “consolazione” – la successiva tradizione linguistica cristiana chiamerà il Santo Spirito appunto “Paràclito” tradotto “Consolatore” -, non trovo da ridire, di consolazione abbiamo bisogno: ma non si tratta di statica e inefficace consolazione, un buffetto o magari abbraccio divino, perché parakaléin significa chiamare, far venire, eccitare, stimolare, incoraggiare, insomma mobilitare, mettere in movimento.».[6]

    Papa Francesco, nell’omelia citata, afferma: «Lo Spirito Santo è quello che muove la Chiesa, è quello che lavora nella Chiesa».

    L’idea nuova con cui ho iniziato questa pagina sta nell’intendere il rapporto tra Padre e Figlio (nessuna differenza se scrivo “tra padre e figlio”) come partnership volta al profitto.

    E profitto è sinonimo di guadagno, vantaggio, incremento, beneficio, da qualsiasi parte lo si prenda: materiale, intellettuale, affettiva, etc.

    Viene così smascherata la menzogna insita nella filosofia esistenzialistica: mi riferisco al celebre aforisma di Sartre «L’enfer, c’est les autres», l’inferno sono gli altri.

    Con Giacomo Contri faccio mia la lezione di Freud, al cui riguardo restava da esplicitare come il principio di piacere sia esso stesso principio di guadagno. «Il partner è la condizione del profitto; l’amore è la partnership per avere l’Altro come mezzo.» Fino al punto di rifiutare di «discorrere di Dio se non è una questione unica con l’esistenza del partner, e innanzitutto di quella partnership a gittata universale che è la relazione Uomo&Donna.»[7]

     

    In Father & Son provo a lavorare in questa direzione. Se con profitto, sta ai lettori giudicare.

     


    * Articolo pubblicato il 6 gennaio 2017 nella rubrica Father&Son del sito www.culturacattolica.it, a cura di E. Leonardi: www.culturacattolica.it/default.asp?id=516&id_n=39582

    [1] G.B. Contri, Think!, 19-20 novembre 2016 http://www.giacomocontri.it/BLOG/2016/2016-11/2016-11-19-BLOG_domenica_esisto_diono_papa.htm

    [4] A dire il vero, mi pare vi sia più dottrina nelle pagine di Scalfari che neanche nel Breviario del cardinale Ravasi su La Domenica del Sole 24 Ore, nelle cui righe la Trinità – se non erro – non viene mai menzionata come tale. Se io fossi il Papa, potrei pensare (sit venia verbis) di offrire quel dicastero a Scalfari (per farlo, però, dovrei prima perdonargli l’errore di avere chiamato sinottici, anziché canonici, i quattro vangeli: La Repubblica, 24 dicembre 2016).

    http://www.repubblica.it/politica/2016/12/24/news/isis_natale-154778093/ .

    [5] Al tema del profitto G.B. Contri ha dedicato molti articoli e saggi, tra i quali menziono soltanto:

    Il profitto di Freud. Una logica chiamata uomo e Luigi Giussani e il profitto di Cristo

  • Il discorso “I have a dream” di Martin Luther King: un esempio di appuntamento*

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    Nell’aprile scorso, trovandomi ad Atlanta (Georgia) per un congresso, ho avuto l’occasione di imparare qualcosa circa la figura e l’opera di Martin Luther King.[1] Ignoravo che fosse nato ad Atlanta, mentre ricordavo il suo assassinio, il 4 aprile 1968: allora frequentavo la seconda media e l’insegnante di lettere ce ne parlò in classe, come usava fare per i fatti più importanti (la guerra dei sei giorni tra Israele e i Paesi arabi, lo sbarco sulla Luna, etc.: era una buona scuola, la sua).

    Penso che oggi in Italia, tranne forse poche eccezioni, non abbiamo un’idea della vastità e drammaticità del problema dell’integrazione razziale negli USA, anche se la sua attualità ci viene riproposta dalle notizie dei fatti di sangue che si susseguono continuamente, fino a questi ultimi giorni.

    La casa natale di M.L. King, il ranger e i tre termometri

    Il M.L. King National Historic Site fu edificato con denaro delle famiglie King e Kennedy. Vi feci visita con Vaia Tsolas e Michael Civin, psicoanalisti residenti a NY, la loro figlia Ariadne di sette anni, e gli amici e colleghi italiani Gabriella Pediconi e Luca Flabbi. Eravamo pressoché gli unici bianchi in un gruppo di visitatori di colore. La nostra guida era un ranger afroamericano:[2] un omone decisamente sovrappeso che, dopo essersi presentato scherzando sul fatto che si chiamava “Bruce Lee” come il celebre attore campione di kung-fu, si mise a chiedere a ciascuno il nome, il Paese di provenienza e il motivo della visita. Rimanemmo tutti molto colpiti dalla risposta di Michael, il marito di Vaia: «Quando ero bambino, nell’Oregon, i miei genitori dovettero portarmi al pronto soccorso dell’ospedale. Là vidi tre termometri appesi al muro: sotto il primo era scritto “per la temperatura orale”; sotto il secondo “per la temperatura anale” e sotto il terzo “per i negri”. Ne chiesi la ragione ai miei, ma essi non seppero rispondermi in modo soddisfacente. Per questo sono qui.»

    Al termine della visita, mentre ci incamminavamo verso il metrò, fummo affiancati da una grossa auto nera: Bruce Lee ci invitava a salire per offrirci un passaggio. Michael sedette al suo fianco e il ranger gli disse: «Quello che hai detto circa i tre termometri, non dimenticarlo mai». E Michael: «Lo porterò sempre con me.» Anch’io, ora.

    Il discorso di M.L. King alla Marcia su Washington

    M. L. King pronunciò il suo discorso più famoso, I have a dream,[3] davanti al Lincoln Memorial di Washington il 28 agosto 1963, al termine della celebre marcia cui parteciparono circa duecentocinquantamila persone, tra cui molti bianchi e personalità di rilievo. Giustamente definito “storico”, quel discorso è stato studiato e commentato da moltissimi politologi, sociologi, filosofi e linguisti, molti dei quali segnalano il dato che riporterò tra poco.[4] Non tutti, però: è il caso dello psicologo Adam Grant, nella sua conferenza Le abitudini sorprendenti dei pensatori originali, in cui egli tesse le lodi dell’improvvisazione con queste parole:

    «Che dire di Martin Luther King, Jr.? La notte prima del più grande discorso della sua vita (…) rimase sveglio fin dopo le tre di notte per riscriverlo. Seduto in mezzo al pubblico in attesa del suo turno per salire sul palco, è ancora intento a scarabocchiare note e cancellare righe. Ma quando sale sul palco parla per undici minuti, poi mette da parte il discorso preparato per pronunciare le quattro parole che hanno cambiato il corso della storia: «Io ho un sogno». Non era nel copione. Rinviando il compito di finalizzare il discorso fino all’ultimo minuto, egli rimase aperto alla più ampia gamma di possibili idee. E siccome il testo non era stato scolpito nella pietra, ebbe la libertà di improvvisare.»[5]

    In realtà, M.L. King aveva giù usato la frase ‘I have a dream’ in altri discorsi: essa faceva parte del suo repertorio, era uno slogan per dire il suo progetto politico (idea, più che sogno). Ma perché cambiò quel testo, che pure aveva preparato con i suoi più stretti collaboratori?

    Accadde che tra i presenti vi era Mahalia Jackson, la più grande interprete di spirituals, detta “la regina del Gospel”. Era in prima fila, sotto il palco; M.L. King l’aveva già invitata a cantare all’inizio della marcia, e ad un certo punto, mente egli parlava, Mahalia gli gridò: «Digli del sogno, Martin, di’ loro del tuo sogno!». Chi aveva collaborato a redigere il discorso non se ne ebbe a male, si sapeva che Martin Luther e Mahalia erano amici: quando egli tornava stanco da qualche viaggio, capitava che la chiamasse e le chiedesse di cantargli una canzone al telefono.[6]

    Vocazione indefettibile, tra amici e nemici

    Un episodio merita di essere accostato, per contrasto, a quello appena narrato. Cinque anni prima, il 20 settembre 1958, in una libreria di Harlem, M.L. King stava autografando le copie del suo primo libro appena stampato. Una donna di colore, Izola Ware Curry, gli chiese se egli fosse davvero M.L. King e all’improvviso lo colpì al petto con un tagliacarte affilato. Una donna di colore! La ferita si rivelò grave: la lama si era fermata vicino all’aorta e dovette essere rimossa con un delicato intervento chirurgico. La donna fu poi diagnosticata come paranoica e venne internata in un manicomio criminale. Durante la degenza, M.L. King ricevette molte lettere da tutto il mondo. Gli scrissero, tra gli altri, il Presidente e il Vice-Presidente degli Stati Uniti. Ma ancor più lo colpì la lettera di una bambina bianca di nove anni, la quale si rallegrava che egli fosse salvo; aveva letto che se avesse starnutito mentre aspettava di essere operato, avrebbe potuto morire: «Ti scrivo solo per dirti che sono contenta che non hai starnutito.» Una giovanissima amica dalla pelle bianca: la lettera rappresentò moltissimo per M.L. King, come egli stesso raccontò anni dopo nel suo ultimo discorso, il giorno prima di venire assassinato. Ma, aggiungo, anche la scoperta di avere rischiato la vita per mano di una donna della sua stessa razza – cosa per lui impensabile fino a quel momento – dovette lasciargli una eco profonda. Infatti fu proprio durante la convalescenza che, trovandosi in regime di riposo forzato, egli decise di visitare l’India, come desiderava fare da tempo, avendo studiato Gandhi fin da giovane.[7] Vi andò con la moglie e un amico: «Noi tre eravamo una specie di squadra a tre teste, con sei occhi e sei orecchie per guardare e ascoltare». La partnership era la sua forza.

    In un certo senso tutte le personalità pubbliche fanno i conti con il pensiero della propria morte, sapendo di avere a che fare con i nemici della causa alla quale si sono votati, qualunque essa sia. Nel caso di M.L. King, però, questo dato si accentua: anzitutto la causa era proprio la resistenza non violenta, di cui Gandhi era stato il rappresentante più celebre in tutto il mondo (l’India deve a lui l’indipendenza politica); inoltre M.L. King non poteva avere messo in conto l’eventualità di subire un attentato proprio per mano di una donna della sua stessa razza. La psicopatologia è, come si direbbe oggi, trasversale: essa alberga ovunque e trascende i confini razziali, religiosi e politici. Non so quanti, prima o dopo Freud, abbiano osservato e compreso questo dato.

    Dunque la decisione di recarsi in India nel febbraio 1959 fu vocazionale in senso proprio:[8] M. L. King cercava altri compagni per far fronte alla propria vulnerabilità: le sue innegabili doti di retore, al confronto, sono assai meno decisive per comprendere le ragioni per cui ancora oggi egli è considerato, non a torto, il più grande “profeta” del XX secolo.[9]

    L’appuntamento con il/la partner.

    Tornando al discorso del 1963 a Washington, si trattò di improvvisazione, certo, ma solo in quanto M.L. King obbedì al suggerimento che gli veniva, fuori programma, da un’amica. Ma se le cose andarono così, perché la tesi del professor Grant non ha ricevuto obiezioni?  Si pensa – a torto – che ciò potrebbe comportare un “abbassamento” della figura del grande oratore di colore,[10] mentre a mio avviso l’episodio ne aumenta senza alcun dubbio la statura.[11]

    Ecco che cos’è un appuntamento: in una partnership ciascuno può prendere idee dall’altro. Le buone idee sono eccitamenti per il pensiero e chiamano all’obbedienza, addirittura la esigono. La creatività non c’entra nulla, salvo ripensarne daccapo il concetto.

     


    [*] Articolo pubblicato il 10 ottobre 2016 nella rubrica Father&Son del sito www.culturacattolica.it, a cura di E. Leonardi: http://www.culturacattolica.it/default.asp?id=516&id_n=39284

    [1] Martin Luther King Jr. (Atlanta 15 gennaio 1929, 4 aprile 1968) è stato un importante uomo politico statunitense, pastore battista e leader nella lotta per i diritti civili degli afroamericani. Ricevette il Premio Nobel per la pace nel 1964. Egli nacque con il nome di Michael King Jr. Nel 1934 suo padre, Michael King Sr., pastore battista e co-fondatore dell’American Civil Rights Movement, decise di cambiare il proprio nome e quello del figlio maggiore dopo un viaggio in Germania, in cui rimase fortemente impressionato dalla figura del riformatore Martin Luther.

    [2] Il Centro, la casa natale, la chiesa battista ed altri edifici sono stati riconosciuti Sito Storico Nazionale e sono amministrati dal National Park Service: https://www.nps.gov/malu/index.htm

    [3] Cfr. I have a Dream. Writings and Speeches that changed the World; edited by J.M. Washington, Foreward by Coretta Scott King, HarperCollins Publisher, NY, 1986, 1992.

    [5] «What about Martin Luther King, Jr.? The night before the biggest speech of his life, the March on Washington, he was up past 3am, rewriting it. He’s sitting in the audience waiting for his turn to go onstage, and he is still scribbling notes and crossing out lines. When he gets onstage, 11 minutes in, he leaves his prepared remarks to utter four words that changed the course of history: “I have a dream”. That was not in the script. By delaying the task of finalizing the speech until the very last minute, he left himself open to the widest range of possible ideas. And because the text wasn’t set in stone, he had freedom to improvise.» A. Grant, The surprising habits of original thinkers, TED Featured 2016, Filmed Feb 2016, Posted Apr 2016: https://www.ted.com/talks/adam_grant_the_surprising_habits_of_original_thinkers. A. Grant è professore di psicologia dell’organizzazione alla Wharton School of Business, University of Pennsylvania.

    [6] La Jackson accettava di incidere dischi soltanto di quel genere di musica, mentre rifiutava qualunque altra proposta.  Il suo rapporto con M.L. King è la storia di un’amicizia: un uomo e una donna che lavorano nella stessa direzione.

    [7] Per un approfondimento circa il rapporto tra il pensiero di M.L. King e quello di Gandhi, rinvio all’articolo, molto istruttivo e ben documentato, del prof. Enrico Peyretti:“Martin Luther King e Gandhi”, reperibile online a questo link: http://scienzaepace.unipi.it/old/index.php?option=com_content&view=article&id=588:martin-luther-king-e-gandhi&catid=14:pace-e–cammini-di-pace. Cito: “King non entrò mai a far parte di una organizzazione pacifista. Egli scrive ancora: «Dopo aver letto Niebuhr, cercai di arrivare a un pacifismo realistico. In altre parole, giunsi a considerare la posizione pacifista non senza peccato, ma come il minor male nelle attuali circostanze”. (Scienza e Pace, rivista del CISP, Università di Pisa, 8 maggio 2008).

    [8] M.L. King scrisse più di una pagina sulla sua idea di vocazione. Per farsi un’idea degli autori e dei concetti che formarono il suo pensiero politico è utile scorrere l’indice del libro citato nella nota 3: vi si trovano molti nomi di filosofi antichi e moderni, oltre che di letterati, teologi e politici.

    [9] Dal 1983 la città di New York celebra il terzo lunedì di gennaio il Martin Luther King Day, chiudendo tutte le scuole e promuovendo gesti di impegno civile fra i giovani. Dal 1993 la festività è riconosciuta in tutti gli Stati degli USA. Il recente film Selma – La strada per la libertà (della regista Ava DuVernay, USA, 2014) è un’onesta e toccante ricostruzione delle marce da Selma a Montgomery, grazie alle quali venne riconosciuto il diritto al voto della gente di colore nello Stato dell’Alabama. Nel film compare brevemente il discorso con cui M.L. King accettò il Nobel per la pace nel 1964. Annoto che la regista avrebbe potuto inserire il video originale, disponibile online, a mio avviso molto più efficace rispetto alla ricostruzione cinematografica: http://www.nobelprize.org/mediaplayer/index.php?id=1853

    [10] Debbo questa osservazione ad una conversazione con Luca Flabbi, da anni residente negli USA.

    [11] Circa il concetto di partnership, Gabriella Pediconi mi ha ricordato che andò così anche tra Freud e Ferenczi, almeno fino ad un certo momento. Quando Freud venne invitato alla Clark University nel 1909, fu accompagnato da Ferenczi e Jung. Ebbene, Freud non preparava niente di scritto di quello che avrebbe detto. Di fatto ogni lezione, scrive il suo biografo Jones, veniva preparata durante una mezz’ora di camminata con Ferenczi. Il loro rapporto, fino a quel momento, era ancora produttivo. Poi Ferenczi se ne ritrasse e Freud non poté che prenderne atto.
    Al tema dell’appuntamento è dedicato il Simposio di quest’anno della Società Amici del Pensiero “Sigmund Freud”: http://societaamicidelpensiero.it/wp-content/uploads/Q_2016_2017.pdf

  • Intraprendenti: padre e figlio nel film “La lunga estate calda” (1958)[1]

    La lunga estate calda

    L’occasione per riflettere su La lunga estate calda[2] è stata l’aver invitato amici e colleghi al cinema, il mese scorso, per festeggiare il mio sessantesimo compleanno. Ho proposto loro questo film a motivo dell’idea centrale che veicola e nonostante il fatto che lo stile in cui fu realizzato nel 1958 (quasi sessanta anni fa) appaia oggi datato. Tratto da tre opere letterarie di William Faulkner,[3] il film risulta completamente diverso da esse.

     

    L’IDEA CENTRALE…

    Procediamo con ordine. Il film mette in scena un passaggio generazionale coronato da successo, in cui un giovane non è figlio in senso biologico, ma diventa erede in forza della posizione che sa guadagnarsi, in un contesto familiare e sociale cui egli inizialmente è del tutto estraneo.

    Un cenno alla trama: «Ben Quick, un giovane con un passato di piromane, trova lavoro in una fattoria, conquistando la fiducia del padrone e, dopo qualche schermaglia, l’amore della figlia. Ma il figlio maschio, invidioso del favori paterni, cerca di farlo linciare dalla folla.» (Mereghetti).[4]  Immancabile l’happy end: per il cinema classico di quegli anni era d’obbligo. Eppure la semplicità della caratterizzazione dei personaggi è solo apparente: i dialoghi ce li mostrano dotati di una loro vita psichica, o pensiero:

    1)  Il protagonista Ben Quick, nome ebreo e cognome che significa “svelto”, ha coraggio da vendere, anche nella confessione finale in cui denuncia il falso stereotipo secondo cui le colpe dei padri ricadono sui figli. Per questa interpretazione Paul Newman vinse la Palma d’Oro a Cannes.

    2) Il padre-padrone Will Varner (un Orson Welles bizzoso e ingombrante) non è così orso e gretto come può sembrare, e non vede l’ora di associare a sé qualcuno che sappia proseguire e incrementare i suoi affari: possedimenti terrieri, emporio, banca, etc.

    3) Sua figlia Clara (Joanne Woodward) aspira all’unico destino che la società riserva a una giovane ventitreenne con un cognome importante, eppure non acconsente a sposare l’uomo cui il padre vuole maritarla finché il giovane non si mostra capace di compiere una mossa libera nei suoi confronti e tenere testa al “vecchio”.

    4) Jody Varner (Anthony Franciosa), il figlio, è meno rapa di quel che sembra, mentre patisce la concorrenza del nuovo arrivato fino a nutrire un pensiero omicida e parricida. Si riavrà in tempo, per tornare dalla sua bella Eula (Lee Remick).

    Il titolo, La lunga estate calda, allude sia alla fama di piromane da cui Quick tarda a liberarsi, sia alle pretese insopprimibili della vita sessuale, che in ciascuno dei protagonisti stenta a trovare una via soddisfacente.

    Quanto al romanzo da cui il film è tratto (The Hamlet), è sorprendente come il titolo (in italiano: villaggio o frazione) richiami invece il Principe di Danimarca, Amleto. Non so nulla circa la scelta shakespeariana del nome Hamlet, ma certo Faulkner, e poi gli sceneggiatori, non potevano ignorare il rinvio alla celebre tragedia e allo spettro del padre.

    … HA UNA FONTE EBRAICA

    Il film è frutto dell’affiatata collaborazione di affermati artisti e cineasti della Hollywood di quegli anni. Erano tutti ebrei: il regista Martin Ritt, il produttore Jerry Wald, gli sceneggiatori Irving Ravetch e sua moglie Harriet Frank J., e lo stesso Newman, che aveva ascendenze ebraiche in famiglia.[5]

    L’idea economica e propulsiva presente nel film, ma del tutto assente in Faulkner, è presto detta: un padre può compiacersi del figlio. Semplice. Eppure è un’idea che nella modernità è stata censurata e che, come tale, ha attraversato sottotraccia tutto il Novecento, fino ad essere un tabù ancora oggi. Al sessantaquattrenne Will Varner il giovane e intraprendente Ben Quick piace, da subito. E soprattutto nell’epilogo la storia si rivela più vicina al libro della Genesi che ad una commedia romantica: quando Quick sembra deciso a rompere, non senza ragione, il sodalizio con Varner, questi sbotta: «L’ho messo nel giardino dell’Eden, gli ho fatto inzuppare il suo pane nel miele… e lui ha avuto la faccia tosta di dirmi di no!»[6] Ecco un padre, ed ecco un tema che ebrei e cristiani farebbero bene a coltivare e rinnovare senza posa. Così fa G.B. Contri quando scrive: «‘Padre’ ha un significato se e solo se significa l’operare ereditario, ossia la fonte che fa erede un altro grande o piccino, maggiore o minore, che ne acquisisce possesso legittimo.»[7]
    Dall’altra parte, Ben Quick si presenta come un figlio esente da quelle obiezioni che Freud individua come tipiche del figlio maschio: la paura, l’arroganza e l’incredulità verso il padre.[8]

     

    … E UNO SPUNTO IN WILLIAM FAULKNER

    Non so che cosa avrebbe pensato Cesare Pavese se avesse potuto vedere La lunga estate calda. Ma non fu così: Pavese si tolse la vita nel ‘50, il film fu presentato a Cannes nel ‘58. Me lo chiedo perché egli tradusse e pubblicò nel ‘42 The Hamlet (Il borgo).[9] Il suo legame, o forse il debito, con Faulkner era intenso, a motivo di quella “trasfigurazione” che accomunava entrambi nel trattare la vita delle campagne che conoscevano bene: il cuneese e lo Stato del Mississippi.
    Mentre scrivo, ho davanti a me una locandina che accompagnò l’uscita del film negli USA. Traduco: “La gente di Faulkner, la lingua di Faulkner, il mondo di Faulkner!” Ma non è così.
    Un solo esempio: uno dei protagonisti del romanzo è il cinico Flem Snopes, capostipite di una genìa di mafiosi, un “mostruoso Benjamin Franklin”![10] Invece Ben Quick, che ne è la trasposizione nel film, sa coniugare intelligenza e affari. Il salto da Snopes a Quick è netto, il che significa che il giudizio degli ebrei di Hollywood sull’intera società statunitense era ben diverso da quello di Faulkner. Quest’ultimo denunciava nel romanzo “l’avarizia sposata alla pura animalità”,[11] mentre nel film non vi è alcuna animalità. Al contrario, il successo di Quick libera gli abitanti del borgo dal loro gretto provincialismo. Il passaggio generazionale narrato nel film addita a tutti la possibilità di uscire da quella psicologia del gruppo che conosce solo la giustizia del linciaggio. Pavese ne sapeva qualcosa: mentre lavorava alla traduzione di The Hamlet, dava alle stampe Paesi tuoi: brutta storia di un incesto in cui la vittima viene uccisa a forconate.[12]

    La mia ipotesi è che idea centrale de La lunga estate calda abbia una fonte ebraica e appena uno spunto in Faulkner.[13] Chi ha scritto, diretto, interpretato e prodotto questo film aveva qualcosa da dire e l’ha detto: a tutto il mondo e senza timidezze nei confronti dell’autore del romanzo, che pure ne ha tratto maggiore notorietà. Ben fatto.

     


    [1] Articolo pubblicato anche sul sito della Società Amici del Pensiero, www.societaamicidelpensiero.com, e nella rubrica Father&Son del sito www.culturacattolica.it.

    [2] The Long Hot Summer, USA 1958, colori, 117’, regia di Martin Ritt, con Paul Newman, Joanne Woodward, Anthony Franciosa, Orson Welles, Lee Remick, Angela Lansbury.

    [3] W. Faulkner (1897-1962) fu uno dei maggiori scrittori americani del secolo scorso e Premio Nobel per la letteratura nel 1949. Molti dei suoi romanzi e racconti sono ambientati nella contea immaginaria di Yoknapatawpha, nello Stato del Mississippi. Tra questi The Hamlet, Burn Burning e Spotted Horses, dai quali è tratto il film di Ritt. Segnalo l’interessante saggio introduttivo di R. Ceserani («Tre racconti giudiziari» di W. Faulkner) in Cavalli pezzati, Sellerio, 1997. Un commento a parte meriterebbero altre opere faulkneriane, come ad esempio As I Lay Dying (Mentre morivo, 1930), e Absalom! Absalom! (1936).

    [4] P. Mereghetti, Dizionario dei film, Baldini&Castoldi.

    [5] Non solo. Nello stesso anno un altro film era in produzione a Hollywood: La gatta sul tetto che scotta, anch’esso opera di un regista ebreo, Richard Brooks, che ne scrisse anche la sceneggiatura. Anche in questo caso ne risultò un film incentrato sul rapporto padre-figlio molto diverso dall’originale, l’omonima pièce teatrale di Tennessee Williams. Il film non piacque a Williams, mentre sembra che Faulkner abbia gradito il film di Ritt.

    [6] Dalla sceneggiatura in lingua originale: «I put him in the Garden of Eden, let him dip his bread in honey… and he’s got the all-out gall to tell me no!» Commovente la scena in cui Varner, che non ha discendenti perché la figlia e Quick non si relazionano “per automatismi”, commenta la nascita di un puledro: «Meno male che a casa mia qualcosa è nato!»

    [7] G.B. Contri, Padre, in: L’Ordine giuridico del linguaggio, Sic Edizioni, 2003.

    [8] S. Freud, Le prospettive future della terapia psicoanalitica (1910), in: Opere di Sigmund Freud, vol. VI, Bollati Boringhieri, pag. 200. Aggiungo che tra i ringraziamenti che ho ricevuto dopo la proiezione, vi è questa pertinente battuta di una mia giovane ospite: «Ad averne di padri che vogliono combinarti un matrimonio con un uomo così!»

    [9] W. Faulkner, Il borgo, trad. C. Pavese, Mondadori, 1942.

    [10] Th. G. Bergin, Dizionario Bompiani delle opere e dei personaggi, Bompiani, vol. I, 1983, pag. 519.

    [11] Ivi.

    [12] Non solo: sceneggiatori e regista hanno fatto piazza pulita di molti altri ingredienti del romanzo di Faulkner, cancellando ogni traccia di altri personaggi, come il povero idiota che fa sesso con una mucca, o la ragazzina dalle forme prorompenti descritta come un’autistica depravata, «immobile, priva apparentemente di pensiero». Via anche l’alone mistico intriso di mitologia greca, che non poteva appartenere alla vita e al lavoro dei contadini del Mississippi!

    [13] In un’intervista a tutto campo, pubblicata qualche anno fa sul Michigan Quarterly Review, gli sceneggiatori dichiarano che nel film vi è forse il dieci per cento dell’opera di Faulkner. Qui il link all’intervista: Hud: A Conversation with Irving Ravetch and Harriet Frank, Jr.

  • “And the winner is…” Il totem degli Oscar e Dustin Hoffman (1980)

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    Che cosa fa uno psicoanalista quando non siede dietro il divano? Va al cinema, o legge un libro, o fa altre cose che gli piacciono quanto ascoltare i suoi pazienti. Nel mio caso, amo vedere buoni film.
    Di recente, consultando il web in cerca di notizie su qualche film, mi sono imbattuto negli archivi dei “Premi Oscar”, rimanendo catturato dall’evento mediatico che fa gola ai cinefili di quasi tutto il mondo. Lì accade un po’ di tutto: un tripudio che sembra accomunare tutti i protagonisti del mondo hollywoodiano, dai più vecchi ai più giovani. Molti gli ingredienti di quella “magica” atmosfera: abiti elegantissimi o a dir poco stravaganti, acconciature costosissime e look che si impongono per la ricercatezza e i dettagli, ma anche performance inaspettate (il settantatreenne Jack Palance improvvisò sul palco una serie di flessioni su un solo braccio!) o irrefrenabili commozioni in cui non si riesce a distinguere quel che c’è di vero e quel che è frutto del mestiere.
    Americanate… Non solo o non sempre. Dustin Hoffman, per esempio, fa eccezione.
    Per cominciare, il lettore può dare un’occhiata a questo breve e divertente videoclip:(1)


    Che cosa combina Dustin Hoffman subito dopo aver ricevuto l’Oscar dalla splendida Jane Fonda?
    Accenna a sorridere, tace a lungo, poi prende in mano la preziosa statuetta la rimira… e l’appoggia nuovamente sul tavolino di cristallo.(2)
    Le prime parole sono una formidabile battuta di spirito, con cui sembra dirci che non abbiamo ancora ben capito quel che rappresenta veramente la mitica statuetta: «Non ha i genitali e tiene in mano una spada!». Còlti di sorpresa, tutti ridono. Un attimo di suspense, poi riprende e sorprende ancora: «Vorrei ringraziare i miei genitori perché non hanno praticato il controllo delle nascite.» Altra risata generale.
    Il breve discorso di poco dopo è invece molto serio: «Sono qui con sentimenti contrastanti. Sono stato critico nei confronti dell’Academy, e con ragione. Sono profondamente grato per l’opportunità di poter lavorare e molto onorato per essere stato scelto dal produttore Stanley Jaffe e dal regista Bob Benton, e per avere lavorato come in famiglia con loro…».
    La lezione non è finita: «Ci prendono in giro quando siamo qui, talvolta per ringraziare altri. Ma quando si lavora ad un film, si scopre che ci sono persone che danno il meglio di sé – la loro parte artistica – ben oltre lo stipendio; eppure non compaiono mai su questo palco. Molti di loro non sono Membri dell’Academy né abbiamo mai sentito parlare di loro. Ma questo Oscar è un simbolo, credo, ed è dato dall’apprezzamento di quanti ci votano senza che noi li vediamo. Anche costoro fanno parte della nostra vita.»
    Hoffman non smorza i toni, anzi: «Mi rifiuto di credere che ho battuto Jack Lemmon, che ho battuto Al Pacino, che ho battuto Peter Sellers. Mi rifiuto di credere che Robert Duvall abbia perso. Noi tutti siamo parte di una famiglia di artisti. Ci sono sessantamila attori in questa Academy – pardon – nella Screen Actors Guild,(3) e probabilmente un centinaio di migliaia in Equity.(4) E la maggior parte degli attori non lavorano, mentre pochi di noi sono così fortunati da avere la possibilità di lavorare ad un copione e con una regia. Perché quando sei un attore squattrinato non puoi scrivere, non puoi dipingere, ma devi solo fare esercizio con gli accenti mentre guidi un taxi. (…) A voi dico che nessuno di voi ha mai perso, e io sono orgoglioso di condividere questo premio con voi. E vi ringrazio.»

    Come a dire:
    1) premiandomi, mi dite che sono il migliore. Ma attenti: nessuno di noi può arrivare a questi risultati se non grazie all’apporto di tutta la troupe. E nessuno può vantarsi per avere battuto un collega, perché siamo tutti accomunati dalla medesima passione per la recitazione.
    2) so di essere un bravo attore, e lo so indipendentemente da questa buffa statuetta, che oltretutto rappresenta un tizio poco raccomandabile che, se mi fidassi di lui, finirebbe con il… tagliarmelo!»
    3) sono grato ai miei genitori, che mi hanno messo al mondo infischiandosene del controllo delle nascite!
    Un’ottima lezione su come distinguere il successo dal narcisismo, ancor più potente se si pensa che viene da qualcuno che ha imparato ad amministrare un’infinità di pensieri, affetti, posture e mimiche per interpretare alla perfezione ruoli e tipi umani così diversi tra loro: il “Sozzo” di Midnight Cowboy, il laureato sedotto dal fascino della donna matura, il maratoneta di Central Park, il giustiziere improvvisato de Il cane di paglia, il giornalista d’assalto di Tutti gli uomini del presidente, e ancora Tootsie, Capitan Uncino, l’autistico Rain Man o il commesso viaggiatore in preda alla demenza, e molti altri ancora!(5)
    E nessuna illusione circa l’essersi “fatto da sé”. Complimenti, caro Dustin.

    Avevo venticinque anni quando, dopo aver letto, tutto d’un fiato, Opinioni di un clown di Heinrich Böll,(6) accarezzavo l’idea di scrivere all’agente di Hoffman per proporgli di farne un film: nessuno come lui avrebbe saputo portare sullo schermo ciò che paralizza il protagonista dalla prima all’ultima pagina: l’ingenuità. La psicoanalisi insegna a riconoscerla come la buccia di banana che fa scivolare chiunque nella psicopatologia. Mi spiace non avere dato seguito a quell’idea. Ne dò notizia oggi che compio sessant’anni. Chissà che qualcuno non voglia raccoglierla.(7)

    Milano, 7 novembre 2015

     

    NOTE:
    1. Il video originale ha una durata di 8 minuti, di cui i primi 3 sono dedicati alle nominations. Qui è riprodotto dal momento in cui Jane Fonda lo proclama vincitore nella categoria “miglior attore protagonista” per il film Kramer contro Kramer (regia di Robert Benton), distribuito l’anno precedente e vincitore di ben cinque Oscar. Riporto per intero il discorso di Hoffman in lingua originale:
    «Thank you. [Inspects the Oscar.] He has no genitalia and he’s holding a sword. I’d like to thank my parents for not practicing birth control.
    I’m up here with mixed feelings. I’ve been critical of the Academy, and for reason. I am deeply grateful for the opportunity to be able to work. I am greatly honored for being chosen by the producer, Stanley Jaffe, and the director, Bob Benton, and to have worked in a family with them, and with Meryl and with Justin, who if he loses again we’ll have to give him a lifetime achievement award. And to Jane Alexander and to Jerry Greenberg and to Néstor and to the crew on the film who was part of that family. And to the crew and to the directors like Bob Fosse and Mike Nichols and John Schlesinger that I’ve worked with before. We are laughed at when we are up here, sometimes, for thanking. But when you work on a film you discover that there are people who are giving that artistic part of themself that goes beyond a paycheck, and they are never up here. And many of them are not members of the Academy, and we never hear of them. But this Oscar is a symbol, I think, and it is given for appreciation from those people whom we never see. They are part of our life.
    I refuse to believe that I beat Jack Lemmon, that I beat Al Pacino, that I beat Peter Sellers. I refuse to believe that Robert Duvall lost. We are a part of an artistic family. There are sixty thousand actors in this Academy – pardon me – in the Screen Actors Guild, and probably a hundred thousand in Equity. And most actors don’t work, and a few of us are so lucky to have a chance to work with writing and to work with directing. Because when you’re a broke actor you can’t write; you can’t paint; you have to practice accents while you’re driving a taxi cab. And to that artistic family that strives for excellence, none of you have ever lost and I am proud to share this with you. And I thank you.»
    (Fonte: Academy Awards Acceptance Speech database, http://aaspeechesdb.oscars.org/link/052-1/)
    2. Il valore commerciale della piccola scultura, alta 35 centimetri e placcata in oro 24 carati, si aggira intorno ai 300 dollari. Sembra che sia stata chiamata “Oscar” da una certa Margaret Herrik, Segretaria dell’Academy of Motion Picture Art and Sciences, la quale nel vedere la statuetta avrebbe esclamato: «Somiglia a mio zio Oscar!». E’ solo una delle tante leggende legate all’Academy Awards e al cinema hollywoodiano.
    3. Screen Actors Guild è un sindacato statunitense che rappresenta più di 150.000 attori di cinema e televisione.
    4. Equity è una organizzazione molto influente che si occupa di finanziamenti, agenzie, diritti di proprietà intellettuale, assicurazioni ed altro ancora a favore degli artisti che lavorano nel cinema e in TV.
    5. Dustin Hoffman, nato a Los Angeles nel 1937, ha interpretato almeno 50 film in 40 anni di carriera, vincendo due Premi Oscar (il secondo gli fu conferito per Rain Man nel 1989), numerosi Golden Globe, BAFTA e David di Donatello, nonché il Leone d’Oro alla carriera nel 1996. E’ anche doppiatore, regista e produttore per il cinema e la TV. Per noi italiani, fino alla metà degli anni ’90 la sua voce è stata quella, indimenticabile, di Ferruccio Amendola, poi deceduto.
    6. H. Böll, Opinioni di un clown, traduzione di Amina Pandolfi, Oscar Mondadori, 2001 (1963). Ringrazio Alberto Brasioli che mi fece conoscere questo affascinante e sferzante romanzo.
    7. In realtà, si tratterebbe di raccoglierla di nuovo: all’epoca non sapevo che nel 1976 un regista ceco, Vojtěch Jasný, aveva già realizzato il film Opinioni di un clown, che tuttavia rimase pressoché sconosciuto.

  • Freud ad Atene e quel disturbo della memoria sull’Acropoli

     

    «Dunque, quello che ci guastò la gioia del viaggio ad Atene fu un sentimento di “pietà filiale”.» (1)

    Così Freud conclude una breve pagina autobiografica, Un disturbo della memoria sull’Acropoli: un bellissimo documento del suo modo di lavorare a partire da quel che osserva, anzitutto nella propria vita quotidiana. Essa è sempre e per ciascuno vita psichica (non esistono “fatterelli”). Qui è in primo piano il tema del rapporto con il padre: «È come se l’essenziale del successo consistesse nel fare più strada del padre, e che fosse tuttora proibito voler superare il padre (…)». E’ una questione che riguarda tutti, non soltanto chi si occupa professionalmente di psicoanalisi.

    Il fatto (1904)
    Freud era solito concedersi una lunga pausa estiva dal suo lavoro compiendo molti viaggi, spessissimo in Italia: non è esagerato dire che visitò il nostro Paese in lungo e in largo. Nel 1904 decise di trascorrere una settimana a Corfù in compagnia del fratello minore Alexander. Ma a Trieste, poco prima di imbarcarsi, un amico consigliò loro di evitare quell’isola, troppo calda in quei giorni, e di dirigersi invece ad Atene. Dapprima entrambi rimasero contrariati e incerti se prendere davvero il piroscafo per Atene. Ma dopo alcune ore si recarono tutti e due a cambiare i biglietti.
    Così il 30 agosto s’imbarcarono per Brindisi e il 3 settembre raggiunsero Atene. Il suo biografo, E. Jones, racconta: «La mattina dopo trascorsero due ore sull’Acropoli: per la circostanza Freud aveva indossato la sua camicia più bella. Nello scrivere a casa raccontò che quella visita aveva superato qualunque altra esperienza che avesse mai fatto o immaginato prima (…). Più di vent’anni dopo ripeté che le colonne color ambra dell’Acropoli erano la cosa più bella che avesse mai visto in vita sua.» (2)
    Questa visita fuori programma nel luogo più rappresentativo della civiltà greca classica, che egli ben conosceva e ammirava fin dagli anni liceali, produsse in lui un momentaneo disturbo della memoria (Erinnerungstörung): una curiosa esperienza sintomatica, di quelle che egli stesso aveva imparato ad apprezzare e a descrivere pochi anni prima in Psicopatologia della vita quotidiana (1901). Egli «fu colto da un senso di dubbio sulla realtà di ciò che aveva davanti agli occhi, tanto che stupì il fratello col chiedergli se si trovavano davvero sull’Acropoli». (3)

    Trent’anni dopo (1936)
    Nel gennaio 1936, Freud analizzò quell’episodio: «Quando poi il pomeriggio dopo l’arrivo mi trovai sull’Acropoli e abbracciai con lo sguardo il paesaggio, mi venne improvvisamente il pensiero singolare: “Dunque tutto questo esiste veramente, proprio come l’abbiamo imparato a scuola?!”»
    Fu come sentirsi sdoppiato in due persone, una delle quali si interrogava sulla realtà delle proprie percezioni mentre l’altra, con meraviglia, ne «prendeva nota». Del resto, prosegue Freud, «vedere una cosa coi propri occhi è del tutto differente dal sentirne parlare o leggere». Di qui la sua incredulità: «Noi arriveremo a vedere Atene? Non è possibile, è troppo difficile. (…) Sarebbe stato così bello! (…) E’ un caso di “too good to be true” [troppo bello per essere vero], come ne incontriamo così frequentemente. (…) Un’incredulità di questo tipo è palesemente un tentativo di ricusare un frammento della realtà, ma qui c’è qualcosa di strano.» Non si sarebbe stupito se si fosse trattato di evitare un dispiacere, «ma perché una tale incredulità verso qualcosa che invece promette un intenso piacere? Un comportamento veramente paradossale!». Il caso è analogo a quel che accade a quanti «soccombono al successo» perché in preda al «senso di colpa o d’inferiorità che si può tradurre: “Non sono degno di tanta felicità, non la merito.»
    Ed ecco spiegato il suo «sentimento di estraniazione» (Entfremdungsgefühl, parola già in uso nella psichiatria dell’epoca): (4) un fenomeno dovuto alla rimozione, «il più primitivo e fondamentale dei meccanismi di difesa, da cui ha preso l’avvio il nostro addentrarci nella psicopatologia.» In altre parole, la rimozione è un mezzo con cui la nevrosi impedisce di realizzare un fine avvertito come potenzialmente positivo, ma al tempo stesso foriero di un’oscura minaccia.
    È precisamente quel che accadde a Freud di fronte alla prospettiva di spingersi fino ad Atene: «Viaggiare così lontano, “fare tanta strada”, mi appariva al di fuori di ogni possibilità. Questo era legato alla ristrettezze e alla povertà delle condizioni di vita nella mia famiglia quand’ero ragazzo. La mia brama di viaggiare era certamente anche un’espressione del desiderio di sfuggire a quella oppressione, affine all’impulso che spinge tanti adolescenti a scappare di casa. Da tempo sapevo con chiarezza che gran parte del mio piacere di viaggiare consisteva nell’appagamento di questi desideri giovanili, era cioè radicato nella mia insoddisfazione verso la casa e verso la famiglia».
    Chi l’avrebbe detto? Freud, come Leopardi, non tollerava il natio borgo selvaggio.
    Chi compie un passo che i propri genitori non si sono mai concessi «si sente come un eroe che ha compiuto incredibili prodezze.» Per sottolineare come in quel momento il suo pensiero fosse andato a suo padre, Freud riporta un episodio che aveva letto in una biografia di Napoleone Bonaparte: nel 1805, prendendo in mano la corona ferrea per cingersi il capo, il nuovo Imperatore si era rivolto al fratello chiedendogli: “Cosa direbbe Monsieur notre père, se potesse essere qui adesso?”. Nel momento del massimo successo, ecco il desiderio di avere il padre al proprio fianco.

    Quel che ci riguarda
    Quando scrisse questa pagina, Freud aveva ormai ottant’anni. Due anni dopo si lasciò convincere a lasciare Vienna alla volta di Londra per sfuggire alle crescenti persecuzioni del nazismo (l’Anschluss avvenne nel marzo 1938). Ebbene, nella notte in cui attraversava la Manica, sognò di sbarcare in Inghilterra: non a Denver, dove era diretto, bensì a Pevensey, la località in cui era approdato nel 1066 Guglielmo il Conquistatore. Freud, vecchio e malato, nel sogno addirittura veste i panni di Guglielmo il Conquistatore! (5)
    Nel finale della lettera a Rolland leggiamo: «Nostro padre era un mercante, non aveva una formazione umanistica, e Atene non poteva significare molto per lui. Dunque, quello che ci guastò la gioia del viaggio ad Atene fu un sentimento di “pietà filiale”». Freud sa che non vi sarebbe stato alcun bisogno di provare un simile affetto per il padre mentre ne oltrepassava l’orizzonte. Ma sa anche quanto sia problematico per chiunque questo passaggio, a motivo dell’idealizzazione, per cui ogni genitore dovrebbe essere sempre perfetto e infallibile: «un senso di colpa resta legato alla soddisfazione di avere fatto tanta strada; c’è qualcosa di illecito in questo, di proibito fin dall’età più lontana. Tutto ciò ha a che fare con la critica del bambino verso il padre, con il disprezzo che ha sostituito la sopravvalutazione infantile della sua persona».
    In realtà, la costante elaborazione intorno al tema del padre gli consentì di procedere speditamente e con determinazione, nella vita come nella professione, raccogliendo tutto quel che poteva raccogliere dal padre, come pure dai maestri, dai pazienti, etc. Questa è la via inaugurata dalla psicoanalisi: una via che non comporta affatto il parricidio, come a torto si ritiene. (6)
    A mia volta, non mi tratterrò dal formulare a questo proposito una critica a Cesare L. Musatti, figura centrale nella storia della psicoanalisi nel nostro Paese. Debbo al suo Trattato di psicoanalisi, (7) che lessi con entusiasmo a quindici anni, la mia prima conoscenza di Freud. Tuttavia ora mi accorgo che nelle poche righe dedicate alla lettera a Rolland, egli non seppe o non volle coglierne compiutamente il senso. Per Musatti, questo breve saggio «presenta particolare interesse per la storia personale di Freud e per determinati suoi conflitti e complessi» (corsivi miei): (8) uno scorcio biografico curioso, ma privo di vero interesse per la scienza psicoanalitica. Come ha potuto censurare in questo modo la centralità del tema del padre? In realtà, Freud non fa che illustrare e ribadire che il punto cruciale è precisamente e nient’altro che il complesso paterno. (9)

    NOTE
    1. S. Freud, Un disturbo della memoria sull’Acropolilettera aperta a Romain Rolland (1936), OSF vol. XI, Bollati Boringhieri, pagg. 473-481. Le citazioni successive sono tratte dalla medesima edizione. Romain Rolland era uno scrittore francese di dieci anni più giovane di Freud, col quale egli fu in corrispondenza. La lettera aperta fu scritta in occasione del suo settantesimo compleanno.
    2. E. Jones, Vita e opere di Freud, Il Saggiatore, 1962; Garzanti, 1977 (3 voll.), vol. 2, pag. 41. E’ significativo che nel movimento psicoanalitico, ad eccezione di queste poche righe di Jones, le prime pubblicazioni intorno a questo saggio siano comparse solo a partire dalla seconda metà degli anni ’60.
    3. Ibidem.
    4. Freud accosta senza mezzi termini questo fenomeno allo svenimento e alla “doppia coscienza”, nella quale può accadere persino di fare qualcosa senza sapere che cosa si sta facendo.
    5. E. Jones, op. cit. vol. 3, pagg. 273-4.
    6. Ritengo che in questo modo Freud preparò la via all’ulteriore elaborazione proposta recentemente da Giacomo B. Contri ne Il pensiero di natura, Sic Edizioni, 1994, 3^ ed. 2006.
    7. C. L. Musatti, Trattato di psicoanalisi, 2 voll., Edizioni Scientifiche Einaudi, 1950, 1953.
    8. C.L. Musatti, Introduzione, OSF, Vol. XI, Bollati Boringhieri, p. XVII. Segnalo che anche il voluminoso carteggio tra Freud e Jung può e deve essere letto come un lungo e accorato dibattito su questo stesso tema, fino alla rottura senza ritorno del discepolo zurighese su cui Freud aveva riposto le maggiori speranze e aspettative.
    9. Nella stesura di questo articolo mi sono avvalso degli appunti redatti in occasione dell’incontro che ho promosso nel maggio scorso presso il Freud Museum di Londra, il cui tema era: «Che cosa significa che il padre è un concetto?». Venticinque i partecipanti, tra colleghi e amici della Società Amici del pensiero «Sigmund Freud». Dopo la visita, abbiamo assistito a The Lion King, la cui trama è imperniata sul rapporto padre-figlio. Rinvio a: “The Lion King”: non solo musical, pubblicato in questa stessa rubrica il 4 novembre 2012: http://www.culturacattolica.it/default.asp?id=516&id_n=31789

    Questo articolo è stato pubblicato il 29/09/2015 sul sito http://www.culturacattolica.it

  • Ragazzi “difficili”? Facciamoli fuori!

    Mi si potrebbe chiedere come mai io dedichi un articolo per stroncare un racconto che mi ha suscitato orrore e rabbia. Non sarebbe stato meglio archiviarlo anziché renderlo noto? Il fatto è che alcune letture possono risultare molto istruttive, anche se “in negativo”. E’ il caso di questo racconto, contenuto in più di un’antologia per ragazzi delle medie inferiori. L’autore, Al Sarrantonio, è uno scrittore statunitense molto prolifico, che riscuote grande successo nel generehorror anche qui in Italia. (1)
    Per comprendere di che cosa stiamo parlando, invito a leggere il breve testo che segue, prima delle mie righe di commento.

    LETTERE DAL CAMPEGGIO ESTIVO: un racconto di Al Sarrantonio (2)

    Lo sconcerto
    Se la pagina del sito su cui scrivo fosse “interattiva”, ora chiederei al lettore se ha compreso subito il finale o dopo un attimo di sconcerto. Io sono rimasto sconcertato dal fatto che un ragazzo di undici anni, cui il testo era stato assegnato per un compito a casa, non l’avesse compreso “fino in fondo”. Infatti, senza quel finale, sarebbe tutto un altro racconto. Successivamente ho voluto mostrarlo ad alcuni adulti, tra cui un mio collega, persona “con molte primavere sulle spalle”: con sorpresa ho registrato che diversi di loro hanno subìto lo stesso contraccolpo. Il che ha accresciuto il mio interesse.

    Falso e vero orrore
    Il genere horror, vasto e composito, è di tutto rispetto e da anni vi trova posto anche un nutrito filone per ragazzi. Fin qui, benissimo. Lo stesso Sarrantonio ha dichiarato di aver curato un’imponente antologia proprio per «tastare il polso al paziente, la scrittura horror, per vedere come sta all’alba del nuovo millennio.» (3)
    Nel racconto in questione, il problema non è il Tyrannosaurus Rex, come non lo è mai stato l’orco, Mangiafuoco o il lupo cattivo nelle fiabe di una volta: penso anzitutto a certi racconti dei Grimm. Ogni bambino può trovare divertente il gioco «io scappo, tu mi prendi!», anche se poi, da adulti, si stenta a pensarlo o a ricordarsene.
    In Lettere dal campeggio estivo l’orrore, lo scandalo imperdonabile, è tutto nella rivelazione finale: dalla lettera del direttore apprendiamo che i ragazzi non sono stati rapiti o sequestrati e che i genitori, ben consci di quel che sarebbe successo, sono i veri mandati dell’omicidio!
    Perché è di questo che si tratta, con l’aggravante del figlicidio: il Campeggio Ultima è in realtà un’associazione a delinquere, il reato è addirittura omicidio volontario plurimo e quei genitori dovrebbero rispondere in concorso di omicidio.
    Ripeto: impensabile per ogni intelletto ben costituito.
    Anche perché, come qualcuno mi diceva in questi giorni, «la soluzione prospettata contraddice vistosamente l’idea instillata sin dall’infanzia, ovvero che i genitori “ti faranno sempre del bene”».

    La parola alla difesa
    Anna M. Mazzucco, psicologa in campo educativo ed esperta di problematiche preadolescenziali, ha dedicato alcune righe a questo racconto. Dopo avere precisato che «non sappiamo di cosa essi [i ragazzi] siano effettivamente “colpevoli”», essa analizza del tutto correttamente i passaggi in cui Sarrantonio articola la sua soluzione finale: 1) l’allontanamento dalla famiglia, orami impotente; 2) l’isolamento in cui il ragazzo “non deve render conto di niente” ai robot del campeggio; 3) l’eliminazione. (4)
    «La punizione del racconto, nel suo paradosso – prosegue la Mazzucco – non è poi molto diversa almeno nelle sue fasi dagli interventi punitivi ai quali spesso si ricorre a scuola. Può sembrare un’affermazione azzardata. Ma se si prova a esaminare quello che succede spesso in una classe, con molte probabilità ci si ritroverà di fronte alla medesima successione dei tre atti sopra descritti.»
    Povera scuola!, vien da esclamare, proprio come Jannacci cantava “Povero re!”.
    Ad ogni modo, la Mazzucco ha ragione nel difendere il racconto di Sarrantonio: così inteso, sarebbe ottimo materiale per la formazione degli insegnanti oltre che per aiutare quei genitori che, non potendone più dei figli “difficili” e non trovando nessuno capace di trattare con loro, non riescono ad uscire dall’impasse!
    La fantasia di Sarrantonio viene dunque loro in aiuto: pensieri estremi a estremi conflitti, evidentemente lasciati covare troppo a lungo sotto la cenere.

    Letture amiche e nemiche
    Ma è grave e insensato che Lettere dal campeggio estivo venga fatto leggere ai ragazzi delle medie inferiori, per i quali non è affatto una buona lettura, ma un attentato al pensiero: un attacco non meno grave di quello che abbatté le Twin Towers. Il rischio è che possa colare non il loro sangue ma l’anima. (5)
    Molto meglio il finale dei pifferaio di Hamelin, ovvero la risposta-sanzione dei bambini che seguono questo strano personaggio lasciandosi alle spalle gli adulti spergiuri e cialtroni della loro cittadina, antesignana del campeggio-recinto di Sarrantonio. (6)
    Tutta un’altra soluzione. (7)

    P.S.
    Con ciò, non ho “stroncato” il racconto di Al Sarrantonio: l’ho “giustiziato”. (8)

    NOTE
    1. Al Sarrantonio (1952) ha pubblicato, nel corso degli ultimi 35 anni, più di 45 libri e 80 racconti. Ha inoltre curato numerose antologie ed è considerato un “brillante maestro di antologie”.
    2. Lettere dal campeggio estivo è pubblicato in Storie da un altro mondo, a cura di I. Asimov, Mondadori, Milano, 1992. Il testo qui riportato è tratto da: Rosetta Zordan, Il quadrato magico, Fabbri Editori © 2004 RCS Libri S.p.A. – Divisione Education, www.amicascuola.it.
    3. Cfr.: http://www.occhirossi.it/libri_horror/666.htm. I pareri sulla “diagnosi” di Sarrantonio non sono concordi, ma tant’è.
    4. Cfr. M. Marchegiani, Anna M. Mazzucco, Fianco a fianco. Storie di preadolescenti a scuola, Armando, Roma, 2012.
    5. L’espressione, drastica ma efficace, è stata coniata anni fa da Giacomo B. Contri. Qui si attaglia molto bene.
    6. Circa la fiaba dei Grimm, rinvio a: Hamelin: genitor(t)i e figli, in: Think!, 16 marzo 2011:
    http://www.giacomocontri.it/BLOG/2011/2011-03/2011-03-16-BLOG-hamelin%20genitor%20ti%20e%20figli.htm
    7. Mentre ero intento a superare il mio sconcerto, mi sono ricordato di una pagina poco nota di Freud, dedicata ad un editore di Vienna che gli aveva chiesto di mettere per iscritto una lista di dieci “buoni libri”. Freud risponde soffermandosi sull’aggettivo “buono”: «con questo predicato [suppongo che] Ella voglia indicare libri che si considerano alla stregua di “buoni” amici, a cui si deve qualcosa per la propria conoscenza della vita e la propria concezione del mondo, che ci hanno procurato del godimento e che raccomandiamo volentieri agli altri… [corsivi miei]» S. Freud, Risposta a un questionario sulla lettura e sui buoni libri (1907), OSF, vol. V, pag. 367. Ci siamo, mi sono detto: si tratterà di distinguere tra letture amiche e nemiche del pensiero.
    8. Ho parafrasato il finale del celebre film di Billy Wilder Testimone d’accusa: il simpaticissimo avvocato, sconcertato dall’ignobile inganno finalmente svelatosi, di fronte al cadavere del colpevole, replica così a chi ha appena esclamato “L’ha ammazzato!»: «Non l’ha ammazzato. L’ha giustiziato!». E’ ben diverso.
    (Testimone d’accusa, USA 1957, con Charles Laughton, Marlene Dietrich, Tyron Power).

    Questo articolo è stato pubblicato il 22/05/2015 sul sito http://www.culturacattolica.it

  • Il bambino erede “a babbo vivo” – Elogio della Pasionaria di Guareschi

    «Gli scrittori che hanno vissuto la coda del secolo precedente e respirato l’aria del nuovo millennio non amano molto le impalcature delle storiografie ufficiali». E’ il caso di Guareschi (1908-1968), «figura scomoda anche dopo morto: la sua opera costringe a ripensare un Novecento liquidato da storie della letteratura fin troppo ingessate in categorie vecchie e obsolete».

    Così scrive Guido Conti nella breve introduzione alla sua avvincente e documentatissima biografia del celebre scrittore emiliano.[1] Colpisce il divario tra l’enorme popolarità di molte opere di Guareschi, tra cui anzitutto la saga di don Camillo, giustamente definita un successo planetario,[2] e la scarsa conoscenza della sua vita e del contesto in cui operò in modo davvero prolifico, prima, durante e dopo la seconda guerra. «Un resistente bipartisan», secondo Giampaolo Pansa.[3]

    Tralascio la letteratura, pressoché sterminata, su Guareschi giornalista, umorista, caricaturista e sceneggiatore, e mi limito a proporre una nota su un suo bellissimo racconto, Gli eredi, pubblicato la prima volta nel 1949 sul Candido, e riproposto in apertura del Corrierino delle famiglie nel 1954.[4]

    Non riassumo il racconto, ma invito coloro che non lo conoscessero a leggerlo prima di procedere:

    G. GUARESCHI: “GLI EREDI”

    Aldilà della commozione suscitata dal breve e geniale testo, non se ne coglie il senso se non si afferra che cosa accade tra i due protagonisti: un padre e la sua bambina di cinque anni. Aggiungo, per inciso, che la piccola Carlotta, la Pasionaria, ha la stessa età del piccolo Hans, il bambino divenuto celebre grazie alla penna di Freud circa cinquant’anni prima.[5] Poco importa se l’episodio narrato da Guareschi sia accaduto davvero o sia invece il prodotto della frizzante fantasia dell’autore. Nel primo caso l’atto descritto è da ascrivere al pensiero ben formato della bambina; nel secondo… è l’autore stesso, all’età di quarant’anni, a ritornare bambino, capace di trattare bene la propria figlia.

    Dunque, nel finale a sorpresa, la Pasionaria piazza il suo dischetto rosso sulla fronte del padre, che era diventato «roba sua», con le parole di Guareschi. Vero.

    Che cosa ha fatto la bambina?

    Primo: rispondendo al pericoloso «giochetto che piace alle mammine», stigmatizzato con molto garbo dall’autore, Carlotta coglie la palla al balzo per affermarsi come erede. Lo fa motu proprio, senza attendere ulteriori e luttuosi eventi. Erede a babbo vivo, insomma, secondo una felice espressione coniata anni fa dallo psicoanalista Giacomo Contri.
    Secondo: Carlotta opera secondo il pensiero descritto nel salmo 15, pur senza conoscerlo: «Il Signore è mia parte di eredità e mio calice». Cioè tratta come suo possesso legittimo non soltanto una serie di oggetti o beni già appartenenti alla famiglia, ma la fonte stessa di quell’eredità: suo padre. Lo fa con un salto logico, o meglio: con un salto sì, ma logico.

    Giustamente Guido Conti commenta: «Sotto l’apparente gioco, tra sorriso e ironia, Guareschi racconta un’angoscia vera, un dramma paventato che si vive in tutte le famiglie, che porta spesso al litigio furioso dei figli sull’eredità» (corsivo mio). Osserviamo che l’angoscia evocata in questo racconto è destata dall’eredità, non dal pensiero della morte.[6] Guareschi lo sa, e proprio per questo la sua intuizione è geniale: in questo racconto, personaggi e fatti sono in controtendenza rispetto al nostro tempo. Infatti il pensiero dell’eredità sembra essere la buccia di banana su cui scivola l’intera civiltà moderna. Del resto, le cose sono andate e vanno (quasi) sempre così.

    Quando lessi Una teoria della giustizia, del filosofo statunitense J. Rawls,[7] rimasi impressionato dal fatto che egli annettesse un’enorme importanza al tema dell’eredità, trattandola solo come ostacolo e questione apparentemente irrisolvibili nel definire i principi della giustizia. Per ovviarvi Rawls elaborò, riprendendola da altri filosofi, la sua teoria del “velo di ignoranza”. Essa rappresenterebbe l’unica posizione originaria (?), capace di accomunare tutti gli uomini nella scelta dei princìpi della giustizia. Una giustizia senza eredità alcuna, dunque. Non saprei dire se Rawls si accorgesse delle implicazioni che la teoria recava con sé: per il diritto, per le istituzioni, per tutti i rapporti che costituiscono la vita quotidiana di ognuno.

    Ancora. Spingerei l’interpretazione dell’atto della Pasionaria fino a paragonarlo con la celebre frase del protagonista della novella La roba di Verga: «Roba mia vientene con me!».[8] L’avido Mazzarò (quasi omen nomen, nome-destino), «omiciattolo basso e pingue» ormai prossimo alla morte, in piena crisi clastica, strillava e barcollava «ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini». E’ il ritratto di un uomo disperato e psicotico (disperato perché psicotico), mentre qui la Pasionaria si rivela un’economista coi fiocchi, la cui mossa può essere considerata una divisione dei proventi derivanti dall’azienda di famiglia, o addirittura un caso di start up. Ma, a differenza dei giovanotti della Silicon Valley, la Pasionaria non ha il problema di rompere con il passato.

    In senso diametralmente opposto a quello di Mazzarò, «Roba mia, vientene con me» descrive bene il pensiero della figlia di cinque anni verso il proprio padre. Dichiarandogli tutto il suo trasporto, è come se gli dicesse: «Te, ti sposo io!» Casto coniugio.[9] Quel padre, sorpreso e soddisfatto, conclude: «…e tornai a letto col bollo rosso fieramente appiccicato sulla fronte…». Più vivo che mai!

    Mi piace pensare che Guareschi abbia voluto iniziare il suo Corrierino proprio con questo racconto anziché con altri, peraltro non meno arguti e di piacevolissima lettura.[10]

     


    [1] G. Conti, Giovannino Guareschi. Biografia di uno scrittore, Rizzoli, 2008. Il titolo dell’introduzione, Istruzioni per l’uso, rende onore alle pagine con cui Guareschi inizia il suo Diario clandestino (1949). Sulla figura e l’opera del grande scrittore segnalo solo: 100 anni di Guareschi. Letteratura, Cinema, Giornalismo, Grafica. Atti del Convegno Internazionale, Parma, 21-22 novembre 2008, a cura di A. Bergogni, MUP Editore, 2009. E, dello stesso editore, Le burrascose avventure di Giovannino Guareschi nel mondo del cinema, di E. Bandini, G. Casamatti, G. Conti, 2008.

    [2] A questo proposito, trovo rilevante la notizia che traggo da un’intervista di Antonella Pilla a Mons. Andrea Lonardo: «…nel ’59, appena eletto Papa, Giovanni XXIII (…) fece chiedere proprio a Guareschi se se la sentiva di scrivere un catechismo della Chiesa per mostrare la vitalità della morale, dei dogmi, della liturgia cristiana. Guareschi, a quel tempo, rispose subito che era assolutamente impensabile perché non si riteneva in grado. Poi, pian piano, ci ripensò e si rese conto che in realtà avrebbe potuto commentare ogni aspetto della fede cristiana dicendo: “Don Camillo dice… o don Camillo fece… o don Camillo pensò…”, ma era troppo tardi. Giovanni XXIII oramai era diventato anziano, si era ammalato ed il progetto era decaduto.»

    http://it.radiovaticana.va/storico/2014/03/16/la_diocesi_di_roma_rilegge_in_un_incontro_le_figure_di_don_camillo_e/it1-781932

    [3] G. Pansa, L’uomo che disse no, in Il Grande Diario. Giovannino cronista del Lager 1943-1945, Rizzoli, 2008. In queste settimane il Corriere della Sera ripropone l’edizione delle opere di Guareschi per i tipi di Rizzoli; mentre Gian Arturo Ferrari gli dedica un interessante articolo sul numero di Sette del Corriere della Sera del 2 gennaio 2015.

    [4] G. Guareschi, Gli eredi, in: Corrierino delle famiglie, 1^ ed. RCS Libri S.p.A., Milano 1954; 5^ ed. BUR Narrativa, aprile 2011. Chi desidera approfondire la conoscenza dell’opera di Guareschi può trovare moltissimo materiale sul sito www.giovanninoguareschi.com. Il link http://www.giovanninoguareschi.com/2014-Bibl-essenz.pdf riporta la vastissima bibliografia curata dal “Club dei Ventitré”, «l’associazione culturale costituita nell’aprile del 1987 che vuol essere un punto di riferimento per tutte le persone che sono interessate a Giovannino Guareschi e alla sua opera.» Inoltre, vale senz’altro una visita la mostra antologica permanente della Casa Archivio Guareschi a Roncole Verdi, curata dai figli Alberto e Carlotta, che ringrazio per la squisita ospitalità.

    http://www.mondopiccolo.it/web/it/?page_id=414 Rinvio anche all’intervista ad Alberto e Carlotta:

    http://www.mondoguareschi.com/roncole.php?lang=it&page=ron_ig_001

    [5] S. Freud, Analisi della fobia di un bambino di cinque anni (Caso clinico del piccolo Hans), 1908, OSF, Vol. V, pagg. 475-589. L’accostamento, per quanto possa sorprendere, è lecito: il tema, infatti, è il medesimo. Molto diversi, invece, il tono e il contenuto delle due relazioni e dei dialoghi corrispondenti: quella tra padre e figlia, qui tratteggiata da Guareschi, e quella tra la madre e il piccolo Hans, descritta dettagliatamente da Freud.

    [6] Lo dimostra anche un passaggio precedente, in cui il figlio maggiore Albertino (sette anni), ancora soggiogato dalle provocazioni materne, «continuava a leggere singhiozzando l’ultimo fascicolo delle Paperoavventure.» Il finale del racconto rivela una mossa ugualmente felice del primogenito nei confronti della madre.

    [7] J. Rawls, (1921-2002). A theory of justice, 1971. Trad. it. Teoria della giustizia, a cura di S. Maffettone, trad. di U. Santini, Feltrinelli, 1982. http://it.wikipedia.org/wiki/Una_teoria_della_giustizia

    [8] «Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all’anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: – Roba mia, vientene con me!». (G. Verga, La roba, in Novelle rusticane, 1883)

    [9] Mi piace ricordare che Casti Connubii è anche il titolo dell’Enciclica che Papa Pio XI dedicò al matrimonio nel 1930.

    [10] Tra essi, ricordo La rivoluzione d’ottobre, che racconta il primo giorno di scuola della Pasionaria. Si veda anche l’articolo di C. Mereghetti Quando una figlia si sposa: il “tragico” resoconto di papà Guareschi, sul sito www.culturacattolica.it Nella mia infanzia Guareschi è stato una compagnia costante, fino a comporre il clima in cui sono cresciuto. Tra gli umoristi del dopoguerra che mio padre ci invitava a leggere, Guareschi era senza dubbio il più amato da me e Annamaria, mia sorella, accanto ad altri umoristi come Carlo Manzoni, Achille Campanile e Giovanni Mosca, peraltro amici dello stesso Guareschi.

    Questo articolo è stato pubblicato l’8 gennaio 2015 sul sito www.culturacattolica.it.

     

     

  • “The Lion King”: non solo musical

    Suggerisco di anteporre alla lettura di questa pagina la visione dell’inizio di questo breve video: è il prologo del musical, in lingua zulu, composto del musicista sudafricano Lebo Morake:

    Lo spettacolo sta per iniziare: le luci in sala si sono spente, a rappresentare la notte della savana. All’improvviso il silenzio viene squarciato dal grido di Rafiki, il babbuino dalle sembianze di un simpatico donnone-sciamano, capace di tener testa a Mufasa e a Simba. Le risponde una voce maschile dalla platea, in un duetto cui si aggiunge il coro:

    Nants ingonyama bagithi Baba [Ecco un leone, padre]
    Sithi uhm ingonyama [Oh sì, è un leone]
    Ingonyama [Un leone]
    Siyo Nqoba [Il nostro destino è la conquista]
    Ingonyama Ingonyama nengw’ enamabala [Un leone e un leopardo sopraggiungono in questo spazio aperto]

    Segue il primo brano, il celebre The Circle of Life, l’inno dell’intera saga. Ma già nei primi versi abbiamo una sorpresa: Rafiki canta: «There’s more to be seen than can ever be seen», «ci sono più cose da vedere di quanto sia mai stato visto». E il pensiero va a Shakespeare: «There are more things in heaven and earth, Horatio, than are dreamt of in your philosophy», «ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia». (1) Il merito è del libretto, opera di Roger Allers e Irene Mecchi, registi e sceneggiatori statunitensi, autori dei maggiori successi della Walt Disney, compreso il cartone The Lion King (1994). Il musical, in cartellone a Broadway dal 1997 e dal 1999 a Londra, è molto più che un adattamento teatrale del cartone: ha ricevuto moltissimi premi ed è uno dei più applauditi di tutti i tempi. Con ottime ragioni perché ha moltissimi pregi: sorprende, commuove e fa pensare. E’ una miniera di spunti.
    La regista Julie Taymor, di origini ebraiche, nella sua carriera si è cimentata più volte con opere di Shakespeare, oltre che con l’Edipo re musicato da Stravinskij (1992).
    Le musiche, stupende, offrono un sapiente mix di generi e sonorità occidentali e africane, e portano la firma di Elton John, oltre che di Lebo Morake. Alcuni brani erano già contenuti nel cartone; altri sono stati scritti appositamente per il musical.
    I testi sono di Tim Rice, già coautore nei musical Jesus Christ Superstar ed Evita e nel cartone Aladdin. Quanto ai rinvii a Shakespeare, oltre all’Amleto già citato, ricordo la scena in cui il malefico Scar seduce la giovane leonessa Nala, allo stesso modo in cui lo scellerato Riccardo III non esita a sedurre, durante il funerale del legittimo erede al trono che egli stesso ha fatto uccidere, la vedova del defunto, Lady Anna.
    Scenografie, costumi e coreografie entusiasmano dall’inizio alla fine, oltre ad essere un’opera impeccabile di ingegneria. Un’occhiata ad altri video su YouTube (2) permette di farsi un’idea, ma forse è meglio arrivare a teatro impreparati, come è successo a me anni fa. (3)
    Non riassumo la trama, peraltro molto nota. E’ la trama per eccellenza, che anima la migliore letteratura mondiale (4) (quella che quasi nessuno legge più): The Lion King ne fa tesoro e la rende accessibile e godibile al pubblico di tutte le età. Il nucleo risiede nel rapporto padre-figlio, minato dal senso di colpa che Scar, lo zio regicida, riesce ad inculcare nel giovane Simba, facendogli credere di essere il colpevole della morte del padre, il re Mufasa. A Simba non resta che… rimuovere. Ottiene così di sospendere il senso di colpa. Chi non conosce questo genere di vita-senza-pensieri, la filosofia dell’Hakuna Matata? In lingua swahilisignifica appunto «non ci pensare» o «non ci sono problemi»: la soluzione di Simba, fino a qui, è la stessa di Rossella O’Hara in Via col vento.
    Ne seguirà l’angoscia, fino all’incubo in cui il padre viene allucinato dal figlio nel cielo pieno di stelle di una notte senza fine (Endless Night). Per inciso, il nome della nazione ngoni – cui appartiene il gruppo etnico degli zulu – significa «gente del cielo»: Simba vi si identifica, così sa di appartenere alla sua gente, un po’ come accade al brutto anatroccolo della fiaba di Andersen.
    L’epilogo della storia resta in certo senso sospeso:
    – da una parte c’è l’ingresso del figlio nella religione dei padri (they live in you, poi he lives in you): questi padri celesti ricordano da vicino i Lari e i Penati di casa nostra;
    – dall’altra c’è la lotta del figlio per il riscatto dell’intero regno a fianco di Nala, l’amata compagna dei giochi infantili, ora ritrovata come amica e sposa. L’uscita dalla rimozione è resa possibile dall’avvento di una nuova relazione uomo-donna.
    The Circle of Life – scrivevo all’inizio – è l’inno della saga di questa umanissima foresta: corrisponde ad una precisa branca della psicologia scientifica dei nostri giorni, detta appunto psicologia del ciclo di vita. Tuttavia Simba viene rappresentato, come Amleto, alle prese con l’aspirazione alla vendetta e al successo: proprio per questo la sua vicenda non è riconducibile ad una questione di evoluzione e proprio per questo ci conquista e ci commuove.

    Per quanto ne so, il musical non approderà in Italia.
    Invito dunque «i miei venticinque lettori» ad andare a vederlo al Lyceum Theater di Londra. E’ sufficiente un weekend: le poche decine di euro per il volo low cost e quelle per il biglietto del teatro saranno davvero ben spese.

    NOTE
    1. W. Shakespeare, Hamlet Act 1, scene 5, 159–167
    2. https://www.youtube.com/results?search_query=the+lion+king+musical&oq=the+lion+king&gs_l=youtube.1.0.35i39j0l9.6765.10375.0.13750.12.10.0.0.0.1.109.579.9j1.10.0…0.0…1ac.1.h4K8LvM7nUM
    3. Ringrazio Francesca Filippini e Carlos Pinto, che mi hanno consigliato lo spettacolo durante un breve soggiorno a Londra. Tempo dopo, trovandomi a New York, sono tornato a vederlo a Broadway. Meglio la performance londinese: il palcoscenico molto più ampio consente un numero maggiore di comparse, il che appaga ancor di più l’occhio.
    4. Questo è anche il giudizio di S. Freud, che accomuna in essa Edipo Re, Amleto e I fratelli Karamazov.

    Illustrazione a cura di Chiara Ciceri