Che fine ha fatto il padre del Sessantotto?

Una celebre canzone del 1970, contenuta nell’album Tea For the Tillerman di Cat Stevens (Yusuf Islam, dopo la conversione alla religione islamica) si intitola Father and Son.
Suggerisco al lettore di ascoltare il brano nella versione originale, ancora oggi facilmente reperibile online e quella incisa durante il concerto del 2007 al Porchester Hall di Londra:

La conversione di Cat Stevens lasciò di stucco i suoi fans e quanti all’epoca seguivano la musica pop, anche perché coincise con il suo ritiro pressoché totale dalla produzione artistica e dallo star system. La fede islamica, come osserva Yahya Pallavicini, che conobbe personalmente il cantante (1), non comporta affatto la rinuncia alla musica come forma di espressione artistica. Dunque resta qualcosa da capire. Mi servirò, per l’appunto, della canzone Father and Son.
In essa un padre si rivolge così al figlio: «Non è tempo di cambiare, sei ancora giovane, questa è la tua colpa. Hai ancora molte cose da conoscere. Tròvati una ragazza, sistémati, se vuoi puoi sposarti. Guarda me, sono vecchio ma felice. Una volta ero come sei tu ora, pensa a tutto quello che hai avuto. Tu sarai ancora qui domani, ma forse non i tuoi sogni».
Il figlio replica: «Come posso provare a spiegare? Quando lo faccio, lui va via di nuovo! È sempre la stessa vecchia storia: dal momento in cui potevo parlare, mi è stato ordinato di ascoltare. Ma ora c’è una strada, e io so che devo andarmene».
La canzone ebbe un successo enorme. Composta per un musical che non fu mai realizzato, Revolussia, ambientato ai tempi della rivoluzione bolscevica, avrebbe dovuto narrare il conflitto tra un padre e il proprio figlio che vuole unirsi ai rivoluzionari. Il brano non è certo l’unico a dare voce al conflitto generazionale di quegli anni: per restare nell’area della produzione musicale, il ricordo corre a Teach Your Children, cantata da Crosby, Stills, Nash & Young in quello stesso anno. E prima ancora c’era stata She’s Leaving Home (1967), dei Beatles, che avevano preso spunto da una notizia apparsa su un quotidiano: la fuga da casa di una studentessa diciassettenne alla vigilia dell’iscrizione al College. I genitori della ragazza avevano dichiarato alla stampa: «Non sappiamo spiegarci il perché di questo gesto: le avevamo dato tutto!».
Tornando al brano di Stevens, qualcuno ha scritto che esso narra «l’impossibilità di una forma di comunicazione tra due mondi paralleli, che non si incontrano, ognuno accecato [corsivo mio] da una propria prospettiva. E questa è una costante della storia di ogni tempo». (2) Vero, ma occorre uscire dalla banalizzazione che, insieme al fascino della melodia può fuorviare il giudizio sulla posta in gioco. Ognuno dei due protagonisti del non-dialogo è accecato: ma da che? Le prospettive di ambedue, padre e figlio, sono omologhe: si tratta di identificazione e cecità speculari. Entrambi sono impegnati a storicizzare le loro posizioni: il conflitto è inevitabile!
Tuttavia non è una delle tante canzoni di protesta: qui padre e figlio convivono, forse per l’ultima volta, in un’unica struttura narrativa: stessa melodia ma diversa tonalità. Gli argomenti del padre («Una volta ero come sei tu ora») sono perdenti in partenza, anche perché testimoniano solo come egli abbia raggiunto una ben misera sistematizzazione della propria esperienza. Al figlio non resta che prendere posto a sua volta nella sistematica del papà: può trovarsi una ragazza, sposarsi se vuole, purché sappia che dei suoi “sogni” non resterà pietra su pietra. Prospettiva melanconica. Inevitabile il «desiderio fin troppo “precoce” di affrancarsi dall’influenza di qualsiasi retaggio familiare». (3) Entrambi ne escono sconfitti: il terreno del rapporto è già disertato. Nessuno dei due vi intravvede un profitto. E’ solo zavorra.
La cosa strana è che in quegli stessi anni padre e madre erano un binomio addirittura inflazionato: il più famoso complesso vocale degli USA, cui dobbiamo brani di eccezionale bellezza, aveva scelto di chiamarsi The Mamas and the Papas; e John Lennon cantava, anzi gridava «Mother, you had me, but I never had you» (1970).
La storia personale di Cat Stevens prese un’altra piega, non meno istruttiva. Il cambiamento radicale del 1977 fu preceduto da un periodo di intensa coltivazione della numerologia: un suo album del 1975 (Numbers) narra la storia di un pianeta governato dai numeri! Nello stesso anno egli rischiò di morire annegato nelle acque del Pacifico, a Malibu. In quel frangente fece il voto di dedicarsi interamente a Dio, se si fosse salvato. Si salvò. L’anno dopo, il fratello gli regalò una copia del Corano. Ancora un anno, ed egli entrò nella più importante moschea di Londra abbracciando la fede islamica.
Ritengo che Father and Son sia il brano cui egli teneva di più, certo accanto ad altri altrettanto fortunati, in cui ha affrontato il medesimo tema: Wild World, Peace Train, Oh Very Young, Another Saturday Night («Oh come vorrei avere qualcuno con cui parlare!»).
A cavallo tra gli anni ’60 e ’70, Cat Stevens non fece che intessere una personalissima elegia del rapporto con il padre. E’ come se avesse proseguito, a suo modo e senza averlo letto, il saggio freudiano Il tramonto del complesso edipico. (4) Dopodiché… abbandonò definitivamente la questione: con la sua «scelta religiosa», appese il padre al chiodo, prima ancora che la chitarra, e mise Dio al posto del padre.
Ecco dov’è finito il padre del sessantotto. Where have all the fathers gone? E’ facile parafrasare il titolo della famosa canzone di Pete Seeger del 1961, Where Have All the Flowers Gone? Osservo che oggi è pressoché impossibile parlare del sessantotto evitando i toni della retorica. Giacomo B. Contri ha paragonato i sessantottini agli assirobabilonesi, chiamandoli anche figli della promessa. (5) «I sessantottini erano giovani liceali e universitari destinatari di una promessa – comunista, cristiana o fascista – di realizzazione, di felicità, di compimento, di costituzione di qualche cosa che faccia star bene. E i padri, cattolici o comunisti che fossero, erano assunti dai figli come quelli che avevano formulato tale promessa. I sessantottini sono stati, da destra e da sinistra, anzi per lo più da sinistra, coloro che hanno preteso di riscuotere. (…) La spina nel fianco di tutti i partiti comunisti, europei e non solo, erano proprio i sessantottini, perché andavano a riscuotere una promessa presa come seria, e chi riceve una promessa ha ragione a chiederne conto». (6)
Vengono in mente le parole di Cesare Pavese: «Com’è grande il pensiero che veramente nulla a noi è dovuto. Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?» (7) Dal canto suo, Yusuf Islam ha cessato di attendere, senza aver cessato di vivere. In altre parole il suo pensiero ha assunto in toto la forma religiosa. (8) In essa il tema del padre non trova più posto, proprio come non ne trova nel Corano, dove leggiamo che Dio non ha figli. (9)
Ai tempi di Father and Son, il parricidio non era ancora compiuto; era invece drammatizzato. In If You Want to Sing Out, Sing Out (colonna sonora dello splendido film Harold e Maude, 1974), egli cantava: «Se vuoi essere me, puoi esserlo; e se vuoi essere te stesso, puoi esserlo». Sono le ultime parole del padre, così come Cat Stevens l’aveva concepito. Oggi Yusuf Islam non potrebbe in alcun modo attribuire ad Allah parole simili. Sull’intera questione è calato il sipario: un religioso silenzio.

NOTE
(1) Yahya Pallavicini, Postfazione a: David Nieri, Da Cat Stevens a Yusuf Islam. Quattro passi all’ombra della luna, Pacini Editore, 2008, pagg. 147-151.
(2) David Nieri, Da Cat Stevens a Yusuf Islam. Quattro passi all’ombra della luna, Pacini Editore, 2008, pagg. 98-99.
(3) Ibidem.
(4) S. Freud, Il tramonto del complesso edipico (1924), in: Sigmund Freud, Opere (OSF), Vol. X, Bollati Boringhieri, pagg. 25-33.
(5) G.B. Contri, Il padre, il sessantotto e J. Lacan, in: Pensare con Freud, a cura di G.M. Genga e M.G. Pediconi, 3^ ed., Sic Edizioni, 2008, pagg. 104-111.
(6) Ibidem.
(7) C. Pavese, Il mestiere di vivere, 27 novembre 1945, pag. 276, Einaudi 1968.
(8) Y. Pallavicini, op. cit.: «occorre piuttosto scoprire e rispettare la forma che Dio ci ha dato».
(9) Il Corano, Sura XXV, Al-Furqân (Il Discrimine), v. 2.

Pubblicato in Father & Son