Autore: Glauco Maria Genga

  • W la Storia!

    Sono diventato un fan del Corriere della Sera. Abito da vent’anni a due passi da via Solferino, ma non ho mai sentito il Corriere così vicino come in questo mese, cioè da quando pubblica, il mercoledì e giovedì di ogni settimana, le sue prime pagine, dall’esordio del 5 marzo 1876 ad oggi. Qui sopra: l’annuncio dell’inizio della Repubblica all’indomani del referendum del 2 giugno 1946.

    Lodevolissima iniziativa, che spero incontri il successo che merita. Si sa, infatti che un numero crescente di giovani, e meno giovani, non leggono i quotidiani.

    Per Hegel la lettura della Gazzetta era «la preghiera del mattino dell’uomo moderno», ma le cose non stanno più così. La prima volta che udii questo giudizio fu nel 1978: lo sosteneva Giacomo Contri, in un corso che tenne al Circolo Filologico (in seguito vi è tornato più volte, come in questo blog: https://www.giacomocontri.it/2006/11/preghiera-laica/).

     

    Ma oggi? Nessuno stacca lo sguardo dallo smartphone… con molte conseguenze.

    Come consulente dell’Aeronautica, mi trovo a firmare provvedimenti di idoneità a chi vuole conseguire la licenza per pilotare un aereo, ma non mi lascia indifferente costatare che più di un giovane aspirante pilota non conosce il nome del nostro Presidente della Repubblica, pur sapendo pressoché tutto dell’ultima polemica social sui Ferragnez…

    Quando frequentavo il liceo, l’educazione civica era chiamata la Cenerentola di tutte le materie. Cosa curiosa, era così anche per la religione. Un errore nell’impostazione degli studi classici. Ma l’ho compreso solo “da grande”.

     

    L’iniziativa del Corriere mi fa pensare ai fatti che hanno cambiato la storia.

    Nel suo discorso del 31 dicembre 2017, il Presidente Mattarella ha definito la Costituzione Italiana la nostra «cassetta degli attrezzi». Notevole. Nel novembre scorso, al Centro Asteria di Milano, ho partecipato ad un incontro con la professoressa Cartabia, dal titolo La Costituzione al centro. L’auditorium era gremito di centinaia di liceali e altrettanti erano collegati online. In uno dei passaggi più rilevanti, l’ex-ministro della Giustizia, già Presidente della Corte Costituzionale, ha ricordato il contributo decisivo di La Pira ai lavori dell’Assemblea Costituente, e in particolare il significato della sua rinuncia al Preambolo.

    «Il 22 dicembre 1947 il giurista siciliano prese la parola un’ultima volta per chiedere che fosse posta in qualità di preambolo alla Costituzione la formula: “In nome di Dio il popolo italiano si dà la presente Costituzione”. Alla proposta seguì un dibattito ferratissimo che mise in pericolo l’unità dell’assemblea. La Pira, pallido in volto, si fece un ampio e devotissimo segno di croce e ritirò la proposta, dicendo: “Se tutto questo dovesse produrre la scissione dell’Assemblea, io per conto mio non posso dire che questo: che ho compiuto secondo la mia coscienza il gesto che dovevo compiere”.»

    (https://www.politicainsieme.com/giorgio-la-pira-e-la-costituzione-di-nino-giordano/)

    Questo punto meriterebbe un approfondimento molto più ponderato; ora lo menziono solo perché la vicenda del Preambolo è un esempio dell’eccellente lavoro legislativo dei 556 Padri costituenti. Faremmo bene ad averlo presente, al netto di ogni considerazione di natura politica. Non nascondo che non mi sono mai piaciute le espressioni giornalistiche Prima e Seconda Repubblica, perché sono fuorvianti.

     

    Un altro esempio, tra i molti possibili. Nel giugno scorso, appena tornato da Siracusa dove avevo assistito alla rassegna del teatro antico (tutti dovrebbero andarvi almeno una volta), incontro due giovani colleghe, cui racconto qualcosa: «L’interpretazione di Laura Marinoni della Medea è stata fantastica! Invece il Prometeo incatenato non mi ha convinto…» Le colleghe mi guardano con occhi smarriti: i nomi Medea e Prometeo non dicono loro nulla: «Ma doc, lei ha fatto il classico!».

    Poiché non era mia intenzione metterle in imbarazzo, non ho insistito, ma l’eco dell’episodio non si è affievolita in me. Quando quelle colleghe riceveranno nei loro studi professionali donne affette da psicosi post partum, o lavoreranno a perizie in casi di infanticidio, la vicenda di Medea sarebbe loro di grande aiuto. Ma non lo sanno! Eppure, anche chi non proviene da studi classici può entrare in libreria o sfogliare un quotidiano e imbattersi in un allestimento teatrale di Medea.

    Informo i lettori che nel prossimo luglio si svolgerà presso l’Università di Urbino una Summer School, promossa da Maria Gabriella Pediconi, dal titolo «Attualità freudiana. Un giurista legge Freud. Con esercizi sulla tragedia greca». Parleremo anche di Medea: il testo di Euripide verrà commentato da giuristi e psicoanalisti.

     

    Può capitare a tutti di imbattersi in modo personale nel racconto di un fatto storico. Ad esempio, un giovane studente universitario mi racconta di avere appreso dalla lettura del Vasari che Michelangelo, prima di morire, “abruciò gran numero di disegni, schizzi e cartoni fatti di man sua, acciò nessuno vedessi le fatiche durate da lui et i modi di tentare l’ingegno suo per non apparire se non perfetto.” La notizia l’ha colpito perché anch’egli non tollera che la sua preparazione sia men che perfetta. Gli  rispondo che i cartoni preparatori dei grandi artisti mettono al lavoro schiere di studiosi: lo stesso Buonarroti non sarebbe mai arrivato ad affrescare la Sistina senza quei cartoni. Resta che quel giovane ha avuto accesso, in un modo o in un altro, alle Vite del Vasari. Non capita spesso.

     

    Che cosa occorre perché si possa fare tesoro della storia, nella cultura come nella scienza, nell’economia o nell’arte? Direi: il racconto affidabile di chi sa di avere seguìto, nel proprio lavoro, una passione; non importa in quale disciplina o campo del sapere.

    Che c’entra tutto questo con la Pasqua? Per credenti e non credenti, è vero che la notizia di quella resurrezione ha fatto storia. Anzi, ha fatto la storia. Come mostra questo affresco: il geniale “pittore di Cluny” del XII secolo doveva avere in mente una qualche idea di Costituzione della Chiesa, perché il fondatore è rappresentato nell’atto di consegnare la legge a Pietro. Il nesso tra legge, diritto e legame sociale è ancora tutto da esplorare: «Dove due o tre sono riuniti nel mio nome io sono in mezzo a loro» (Mt. 18,15-20).

     

     Dedico questo articolo a Giovanna e a suo marito Antonio,
    alla loro storia nella storia.

     

  • Whiplash

  • Sarà il Caos (It Will Be Chaos)

    It will be chaos - locandina
    Teatro Studio Melato (MM2 Lanza)

    Regia di Lorena Luciano, Filippo Piscopo
    (USA, 2018 durata 93')


    anteprima italiana del documentario

    SARÀ IL CAOS (It Will Be Chaos)

    A tema: la crisi dei rifugiati che attraversano il Mediterraneo, la resilienza dei richiedenti asilo e degli italiani che si trovano a fronteggiare il massiccio afflusso di migranti.
    Prodotto dal canale statunitense HBO, è stato trasmesso in occasione del World Refugee Day e premiato nel luglio scorso al Taormina Film Festival.
    Qui l’articolo-intervista de La Repubblica di venerdì scorso.

    Dopo la proiezione i registi, che hanno lavorato a lungo con i migranti, racconteranno all’uditorio come hanno realizzato il film.

    INFO

    Ingresso: 5 euro. 
    Suggerisco di essere lì alle 18.30 per accedere ad un posto da cui si veda bene.
    Teatro Studio Melato – MM Lanza. I biglietti sono acquistabili solo il giorno stesso.
    La biglietteria del Piccolo Teatro (Studio Melato) sarà aperta dalle 17:30 alle 23:30
    Info: naga@naga.it, 349 160 33 05 – Milano Film Festival www.milanofilmfestival.it

    http://www.milanofilmfestival.it/it/2018/07/22/immigration-day-martedi-2-ottobre/https://www.tempostretto.it/news/filmfest-taormina-riconoscimento-registi-luciano-piscopo-it-will-be-chaos.html

  • Le due vie del destino

    Proiezione del quarto e ultimo film del Cine-seminario
    THE DEAD-END ROAD OF REVENGE. IL VICOLO CIECO DELLA VENDETTA

    LE DUE VIE DEL DESTINO

    (The Railway Man) Australia – Gran Bretagna,
    2013, col. 113′, regia di J. Teplitzky.
    Con: Colin Firth, Nicole Kidman, Jeremy Irvine, Hiroyuki Sanada.

    Ci sono fatti, e persone, che tutti dovrebbero conoscere.
    È il caso di Eric Lomax, giovane ufficiale britannico appassionato di ferrovie e radio, prigioniero dei giapponesi in Thailandia dal 1942 al 1945 e costretto a lavorare alla ‘Ferrovia della Morte’: una follia che costò la vita a decine di migliaia di persone.
    Lomax sopravvisse alla guerra, ma per decenni rimase ossessionato dal ricordo delle torture subite (disturbo post-traumatico da stress?) finché, con l’aiuto della moglie, decise di dare uno speciale seguito ai suoi propositi di vendetta.
    La vicenda colpisce per l’inatteso bivio cui si affacciano il protagonista e il suo aguzzino di un tempo: la vendetta può davvero riparare ferite così radicate nella memoria? Freud, che si occupò, tra il 1918 e il 1920, delle nevrosi di guerra e dei loro trattamenti, scrisse che in simili casi il “conflitto si svolge tra il vecchio Io pacifico e il nuovo Io bellicoso del soldato”.
    Il film, tratto dall’avvincente autobiografia The Railway Man (bestseller 1995), è stato presentato in anteprima mondiale al Toronto International Film Festival 2013. Il regista australiano Teplitzky ha saputo rendere – anche grazie ad un Colin Firth superlativo – la figura straordinaria di Lomax, che chiuse il proprio libro con queste parole: “Avevo dimostrato a me stesso che ricordare non serve a nulla se si limita ad alimentare l’odio.”

    Al termine della proiezione, seguirà una conversazione a più voci.

    INFO

    MIC, Museo Interattivo del Cinema, viale Fulvio Testi 121 (MM5 Bicocca),
    22 marzo 2018, ore 20.30.
    Raccomando di arrivare almeno alle 20.15: la proiezione inizierà alle 20.30 in punto.
    Se è interessata/o, le consiglio di inviare al più presto l’adesione all’indirizzo:
    gmg-cinema@glaucomariagenga.it Potrà ritirare il suo biglietto (€ 6.50) all’ingresso del MIC.

  • Il sospetto

    proiezione del terzo film del Cine-seminario
    THE DEAD-END ROAD OF REVENGE. IL VICOLO CIECO DELLA VENDETTA

    Contrariamente a quanto previsto nel programma iniziale, non sarà proiettato il film Corno di capra, per sopraggiunte difficoltà comunicateci solo nei giorni scorsi dall’Associazione Bulgaria-Italia, che avrebbe dovuto procurare il dvd.
    Pertanto sarà proiettato il film:


    IL SOSPETTO

    (Jagten), Danimarca, 2012, col. 115’
    Regia di Thomas Vintenberg
    con Mads Mikkelsen e Annika Vedderkopp

    Perno della vicenda è, più che la vendetta, la sanzione di una bambina di cinque anni, Klara, nei confronti di Lucas, il maestro della sua scuola materna. Il film mostra fin dall’inizio che l’accusa della bimba è falsa e il maestro è innocente, rivelando anche le ragioni della piccola, le cui profferte amorose sono state ingiustamente rifiutate dall’adulto.
    Il roccioso pregiudizio condiviso da tutta la comunità (un piccolo paese della Danimarca) produrrà un effetto a valanga, anche quando la piccola accusatrice cercherà di scagionare Lucas: in tutti vincerà lo stereotipo secondo il quale ‘i bambini non mentono mai’.

    Il film sarà seguito da un commento a più voci: sono state invitate la prof.ssa Marina Mombelli, Docente di Psicologia Giuridica presso l’Università Cattolica di Milano e la dott.ssa Silvia Nanni, in servizio presso la Squadra Mobile della Questura di Varese.

    INFO

    MIC, Museo Interattivo del Cinema, viale Fulvio Testi 121 (MM5 Bicocca),
    22 febbraio 2018, ore 20.30.
    Raccomando di arrivare alle 20.15: la proiezione inizierà alle 20.30 in punto.
    Se è interessata/o, le consiglio di inviare al più presto l’adesione all’indirizzo:
    gmg-cinema@glaucomariagenga.it Potrà ritirare il suo biglietto (€ 6.50) all’ingresso del MIC.

    Un cordiale saluto.

    Glauco Maria Genga

  • Quale futuro per Caino? Una nota su ‘Padre e figlio’ di Fabrizio Sinisi

     

    Nell’articolo Freud con Goethe dell’ottobre scorso mi riproponevo di dedicare una pagina alla bellissima pièce teatrale Padre e figlio, rappresentata all’ultimo Meeting di Rimini.[1] Lo faccio solo ora, dopo alcuni mesi: tempi… biblici, ma pur sempre proporzionati, trattandosi di relazioni bibliche.
    Fin da bambino provavo un sentimento denso e spiacevole di fronte ai tantissimi delitti narrati nell’Antico Testamento: la colpa dei progenitori che ricade, chissà perché, su tutte le generazioni successive, un fratricidio, un ragazzino abbandonato dai fratelli nel deserto in una cisterna e venduto come schiavo, popoli interi passati a fil di spada, e via dicendo. L’infanzia e l’educazione di molti di noi sono state accompagnate da quei personaggi, storici o letterari che fossero. In Padre e figlio, il drammaturgo Sinisi ne offre una eccellente caratterizzazione, dotandoli di pensieri che rendono ragione degli atti loro attribuiti dalla Bibbia. Ora mi soffermerò su Caino.

     

    La pièce teatrale ‘Padre e figlio’
    Massimo Popolizio interpreta in modo straordinario il testo che Sinisi ha concepito partendo da alcuni brani dell’Antico Testamento. L’opera è suddivisa in tre capitoli: Caino e Abele; Abramo e Isacco; Giacobbe ed Esaù. Sulla scena l’attore non è l’unica presenza: un ruolo fondamentale è svolto dal Siman Tov Quintet, che esegue bellissimi brani di musica klezmer, genere tradizionale ebraico. Il tutto è arricchito dalla sorprendente arte interattiva di Massimo Ottoni: in piedi ad un lato del palco, egli sfiora lo schermo di un computer come se avesse in mano un pennello, mentre sullo sfondo del palcoscenico danzano forme colorate e sinuose in grande sintonia con le note. Un accompagnamento perfetto e coinvolgente.

     

    Caino e Abele: quando le economie erano separate
    Il racconto biblico riserva poche e scarne righe alla vicenda dei due fratelli. Sinisi ha potuto – e saputo – prestare loro una fisionomia, argomentazioni logiche, passioni ed affetti, offrendo allo spettatore molteplici spunti e suggestioni.
    Per esempio ad Abele, che conosciamo solo come prima vittima innocente, viene messa in bocca una pesante accusa verso il fratello maggiore: “Il Signore ama i semplici, e tu, Caino, pensi troppo”.
    Una vera infamia, la sua! Che significa? Non è cosa peggiore pensare troppo poco? Niente è più pericoloso della coppia malvagità-stupidità, come mostrano moltissimi episodi di cronaca nera.
    È quel che sostiene anche Woody Allen in più di un film: in particolare, Sogni e delitti (2007) è una rivisitazione lucida e impietosa del fratricidio, i cui protagonisti sono per l’appunto due fratelli, delinquenti e inetti allo stesso tempo.[2] Tipi così esistono davvero, e sono molto lontani da drammi o conversioni simili a quella creata dal Manzoni nella ‘notte dell’Innominato’.
    Tornando alla pièce, Caino ci viene presentato capace di dibattere con suo padre Adamo: “E Abele, che ha di meglio di me?’. ‘Abele dà quello che ha senza trattenere nulla. Dona e non vuole niente in cambio. Ha tutto perché vuole tutto. Davanti al Signore non ha segreti né pretese. C’è molto da imparare, in Abele. Ma tu non lo guardi. Non lo guardi mai.’ Non è vero che non lo guardavo. Lo guardavo eccome. Ma senza che nessuno mai se ne accorgesse.”
    Il Caino di Sinisi non si dà per vinto: “non solo i padri morirebbero per i figli, ma anche i figli morirebbero per i padri, se gli venisse chiesto. E uccidere Abele per me fu come morire, morire per te (si rivolge ancora al padre, ndr), morire perché tu finalmente mi guardassi per quello che ero: non l’altro, ma ‘io’, Caino, ‘io’.” Egli vuole, pretende che il padre conosca il suo smisurato ‘amore’ per lui, ora che è arrivato perfino ad uccidere per emanciparsi dal secondogenito così scomodo.
    Tema vasto e complesso. Freud osserva: “Il bambino piccolo non ama necessariamente i suoi fratelli, spesso palesemente non li ama affatto (corsivo mio, ndr).” “Si può osservarlo con maggiore facilità in bambini da due anni e mezzo fino a quattro o cinque anni, quando sopravviene un nuovo fratellino. Questi perlopiù ha un’accoglienza molto scortese. Espressioni quali: “Non mi piace, voglio che la cicogna se lo riporti via” sono assai frequenti. In seguito ogni occasione sarà buona per denigrare il piccolo arrivato, e tentativi di fargli persino del male, veri e propri attentati, non sono niente di inaudito.”[3]
    Dopo Freud moltissimi autori, psicoanalisti e non, hanno sottolineato il narcisismo di Caino, la sua incapacità di amare e i diversi ‘meccanismi psichici’ legati all’invidia che egli ha coltivato per non essere stato il preferito agli occhi dei genitori.[4] Ma simili commenti possono scivolare nell’errore, comune a tanta psicologia novecentesca, di separare la vita intrapsichica da quella reale, e l’economia affettiva dall’altra economia, che guida la politica e la società.
    Preferisco seguire il commento di G.B. Contri, che scrive: “Sulla vicenda di Caino e Abele è prevalsa l’idea del delitto passionale, ma non torna perché i due “fratelli” sono intercambiabili (poteva essere Abele a uccidere Caino, proprio come x e y sono intercambiabili). I due coltivano campi separati e non connessi (pastorizia e agricoltura), non sono “fratelli”, non hanno legame sociale, l’uno è civilmente morto per l’altro, una pura sagoma per l’altro”. Contri individua bene qual è l’errore comune ad entrambi: in ciascuno dei due “l’indifferenza precede e prepara l’ostilità. Nessuno dei due si è permesso di offrire appuntamento ossia di fare società d’affari come Regime dell’appuntamento.”[5]
    Per dirlo con uno slogan: l’alba della civiltà non ha visto il sorgere di una ‘Eredi di Adamo ed Eva S.p.A.’

     

    Nessuno tocchi Caino
    Nel testo biblico, quel fratricidio ha un seguito – anche se spesso la predicazione non ne fa menzione – nel grido accorato di Caino (“la mia iniquità è tanto grande che io non posso sopportarla!”) e nella pronta risposta di Jahvè, che proibisce a chiunque di ucciderlo; se ne può dedurre che, quando questo testo venne redatto, la legge del taglione era già in vigore presso quei popoli.
    Javhè – scrive ancora Contri – “gli lascia tempo per passare a nuovo Ordine, e infatti Caino “divenne un costruttore di Città”. Nessuno tocchi Caino è anche il nome di una nota lega internazionale, costituitasi nel 1993, attiva nella lotta contro la pena di morte e la tortura, nella ricerca di forme di giustizia in cui sia espunta ogni sete di vendetta.[6]
    Nel Caino di Lord Byron (1821), sia la madre Eva che l’Angelo del Signore paventano al fratricida le terribili conseguenze del suo atto: “Tu hai ucciso tuo fratello, e chi ti garantirà da tuo figlio?”[7] Il clima livido di quel momento è reso molto bene dall’impressionante dipinto di Fernand Cormon (1845-1924) riprodotto all’inizio di questa pagina: Caino si avvia all’esilio con tutti i suoi familiari. Poiché Abele non aveva generato figli, su quel carro è raffigurata in un certo senso l’intera umanità, perché tutti possiamo considerarci suoi discendenti. Nessuno può dirsi estraneo rispetto al compito di costruire un legame sociale foriero di pace. Ha dunque ragione Sinisi, quando sottolinea la contemporaneità dell’intera vicenda riproposta nel suo spettacolo.

     

    P.S.: Trovo che il Natale abbia a che fare con tutto questo, molto più che con la favola moderna dei buoni sentimenti, rappresentata al meglio da quel Canto di Natale con cui Dickens nel 1843 perfezionò la rimozione del Natale – perché di questo si trattò – reinventandone completamente il senso originario.[8]

     

     


    [1] Padre e figlio (sceneggiatura di Fabrizio Sinisi e regia di Otello Cenci) è stato rappresentato a Rimini il 23 agosto 2017. Autore, regista e interpreti hanno saputo portare all’attenzione di un vasto pubblico temi molto rilevanti. Rinvio all’intervista rilasciata da Sinisi a Il Sussidiario il 17 agosto 2017: Padre e figlio. Tra Bibbia e teatro per riscoprire i rapporti fondamentali per l’uomo. Mi auguro che lo spettacolo venga presto riproposto in diversi teatri italiani: merita.

    [2] I due anti-eroi di Woody Allen, ingenui eppure bastardi senza scrupoli, ricordano i balordi del film di Godard Bande à part (1964), sopravvalutato dalla critica, o i sicari di Fargo (1996) dei fratelli Coen, i quali trassero da un fatto di cronaca una sceneggiatura dal cinismo esasperato e quasi insostenibile.

    [3] S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, 1915-17, lezione 13, OSF, VIII pagg. 372-3.

    [4] Sull’argomento rinvio a: M.G. Pediconi, G.M. Genga, L. Flabbi, Invidia versus legame sociale. Una nuova idea di profitto, in: Teorie & Modelli, n.s., XVIII, 2, 2013 (7-23). Una breve rassegna di autori e opere che hanno riproposto la figura e il dramma di Caino tra ‘800 e ‘900 (tra cui Byron, Santucci, Borges, Lacan, Saramago e Steinbeck) si trova in A. Zaccuri, Caino, il dramma del fratricida, https://www.avvenire.it/agora/pagine/il-dramma-di-caino

    [5] G.B. Contri, Caino e Abele senza permesso, in Think!, 30 ottobre 2013: www.giacomocontri.it/2013/10/caino-e-abele-senza-permesso/

    [6] Al tema della vendetta è dedicata la rassegna The Dead-End Road of Revenge. Il vicolo cieco della vendetta, (MIC, Museo Interattivo del Cinema, Milano), che promuovo con la Società Amici del Pensiero in collaborazione con la Fondazione Cineteca Italiana, http://www.cinetecamilano.it/rassegna/the-dead-end-road-of-revenge-il-vicolo-cieco-della-vendetta-cine-seminario-con-la-psicoanalisi

    [7] Lord Byron, Cain. A Mystery, testo originale a fronte, con un articolo di J.W. Goethe, tr. it. di F. Milone, introduzione e note di G. De Lorenzo, Sansoni Ed., Firenze, 1942.

    [8] Dickens: l’uomo che inventò il Natale è il titolo dell’interessante film diretto dall’indiano B. Nalluri, con D. Stevens e C. Plummer, uscito in questi giorni nelle sale italiane.

  • Freud, Giussani, Contri e il concetto di ‘fatto’*

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    Che cosa hanno in comune un ebreo medico, un laico in sacerdozio, [1] uno psicoanalista di lungo corso già allievo di Jacques Lacan? Un medesimo punto di vista, una Weltanschauung, una filosofia? La religione, la psicoanalisi? Non è quel che sostengo, mentre sottolineo – porto a fattor comune – una parola presente e rilevante nell’opera di tutti e tre: il sostantivo ‘fatto’. L’idea mi è venuta leggendo l’intervista rilasciata recentemente da Giacomo Contri ad Antonio Gnoli (La Repubblica, 16 luglio 2017). [2]

     

    Freud è partito dall’osservazione dei fatti.
    Il 7 dicembre 1938, pochi mesi dopo il suo arrivo a Londra per sfuggire alla persecuzione nazista, la BBC chiese e ottenne di intervistarlo. In nota riporto il breve testo in lingua originale, poco più di una pagina, e il file audio. [3]
    “Sotto l’influenza di un amico più avanti negli anni e con i miei stessi sforzi, ho scoperto alcuni importanti fatti nuovi circa l’inconscio nella vita psichica, il ruolo delle sollecitazioni pulsionali e altro ancora. Da queste scoperte ha preso avvio una nuova scienza, la psicoanalisi, una parte della psicologia, e un nuovo metodo di trattamento delle nevrosi. Ho dovuto pagare pesantemente questa buona sorte. I più non davano credito ai miei fatti e ritenevano malsane le mie teorie. La resistenza è stata forte e spietata.”
    Freud impernia la sua dichiarazione proprio sui “fatti”, per descrivere la dura lotta che era sorta intorno alle sue scoperte. Non sta parlando di religione, ma della, – nonché dalla – nuova scienza da lui fondata in mezzo secolo di incessante lavoro a Vienna.
    Gli esempi di questi fatti possono essere molteplici: un sintomo (svenimento, dispnea, paralisi muscolare, tic), ma anche un lapsus e molti altri. Persino un sogno è un fatto della vita psichica.
    Un inciso: nel 1969 il regista John Huston, che aveva realizzato pochi anni prima il film Freud. The Secret Passion, ebbe a lamentarsi dei tagli imposti dalla produzione, e disse: “…dopo che furono fatti i tagli (Freud) cessa di essere un investigatore super-efficiente che lavora sempre con argomenti razionali sulla scorta dell’evidenza, e diventa un certo tipo di genio malato e ispirato che coglie le risposte giuste nel limbo dell’ispirazione”. Huston aveva capito il modo di lavorare di Freud.
    Del resto, il maltrattamento cui andò incontro Freud non era una novità. In Per la storia del movimento psicoanalitico (1914) egli scrisse:
    “Nella fase presente della lotta intorno alla psicoanalisi la resistenza contro i risultati della psicoanalisi ha notoriamente assunto una nuova forma. Prima, ci si accontentava di contestare che i fatti asseriti dall’analisi fossero un fatto, e a questo scopo la tecnica migliore sembrava quella di evitare di verificarli. Questo procedimento sembra andar lentamente esaurendosi. Oggi si batte l’altra strada, quella di esaminare i fatti, ma sopprimendo attraverso interpretazioni deviate le conclusioni che ne risultano, in modo da preservarsi ancora una volta da verità scandalose.” [4]

     

    Giussani: “Un fatto è un criterio alla portata di chiunque”.
    In uno dei suoi testi, Giussani scrive che “un fatto è un criterio alla portata di chiunque”, appoggiandosi all’affermazione di tale padre Pierre Rousselot, riportata da Henri de Lubac: “Il Cristianesimo è fondato su un fatto, il fatto di Gesù, la vita terrena di Gesù.” E ancora: “L’imperativo cristiano è che il contenuto del messaggio suo si pone come fatto. Ciò non sarà mai sottolineato a sufficienza. Un’insidiosa slealtà culturale ha reso possibile, per l’ambiguità e la fragilità anche dei cristiani, la diffusione di una vaga idea di cristianesimo come discorso (…). No: è anzitutto un fatto, un uomo che è entrato nel novero degli uomini”. [5]
    Nell’intervista a Gnoli, Contri si diffonde su don Giussani e sul rapporto personale che intrattenne con lui: “Era un prete che non aveva niente del prete. (…) Parlava di Gesù come di un ‘fatto’”.
    Mentre scrivo, non ho la minima idea di quale effetto abbia oggi questa frase in chi vi si imbatte per la prima volta: certo non è scontata, né la si incontra facilmente: insomma, non circola. Anche questo è un fatto. Leggendo l’intervista, ci si accorge che a Contri non sfugge la difficile collocazione della proposta di Giussani: egli “non era sulla via tradizionale della “Riforma” della Chiesa: né Riforma né Controriforma. (…) Con il suo operato Giussani si portava dunque avanti rispetto alla storia del cristianesimo, non rientrava in schemi precostituiti, ortodossi o eterodossi.” [6]

     

    Giacomo Contri: il corpo e l’ ‘inconscio’ come fatti.
    In un suo saggio dal suggestivo titolo …e Dio non creò l’inconscio, [7] Contri pone ad esergo un’eccellente frase che Aristotele riprende da Agatone: “Sol questo pure a Dio non è concesso, ciò ch’è già fatto far che non sia fatto” (Etica a Nicomaco, VI,2). Lo stesso Contri la commenta così:
    “Ciò che è già fatto è il corpo, la (prima) Città, il pensiero. Uniamo queste tre parole nell’unico concetto di aldilà. In questo articolo si parla dell’inconscio come di un fatto, per il fatto che è l’individuo a farlo. Si potrebbe obiettare che si tratti di uno di quei fatti che possono essere disfatti, come la casa costruita sulla sabbia. Possibile che un fatto come quel costrutto di pensiero che è stato chiamato a suo tempo «inconscio», ma che è la memoria di aver attivamente elaborato qualcosa, non possa essere disfatto? Come si può attribuire a un risultato di pensiero l’assurdità di ritenere che esso sia certamente solido come la casa costruita sulla roccia? Ai nostri pensieri merita di essere applicato il detto evangelico: «Tutti i vostri capelli sono contati».” [8]
    Ora possiamo intendere come la questione rilevata da Freud (1914 e 1938) e quella denunciata da Giussani in un contesto affatto diverso (“un’insidiosa slealtà culturale…”) siano la medesima questione. In entrambi i casi è chiamato in causa il pensiero del singolo, cioè una realtà scomoda per l’organizzazione della Cultura di ogni tempo. C’è chi se ne è accorto. Non tutti.
    Contri racconta a Gnoli di avere avuto vita difficile nel movimento psicoanalitico. Un punto non sfiorato dall’intervista è l’accusa che proveniva da esponenti del movimento psicoanalitico di allora, e che riguardava proprio la sua prossimità con Giussani. Era un’accusa di copertura, mossa da un ‘fronte interno’ alla psicoanalisi, italiana e francese, che non sopportava uno psicoanalista pensante in proprio e allo stesso tempo freudiano in toto. Gli rimproveravano la prossimità con Giussani per coglierlo in fallo: esattamente come avevano fatto i farisei con Gesù quando lo interrogavano sul sabato. [9]
    Peraltro, Contri non ha mai rinnegato il suo orientamento cattolico, e in quel clima bellicoso (1978) scriveva: “(…) radicatomi nel razionalismo teologico, cioè nella più lunga signoria storica della ragione, il monopolio laico-borghese dell’ateismo non solo non ha avuto la minima presa su di me, ma mi è sempre parso ridicolo, spregevole e filisteo, sul che il mio giudizio di psicoanalista non ha fatto che rinforzarsi.” [10]

    Che cosa possiamo intendere per ‘fatto’? [11]
    Atteniamoci ad una definizione ispirata al buon senso: un fatto è un evento, circostanza o accadimento della natura, ma anche un’azione compiuta in qualsiasi campo dell’attività umana: piove, l’aereo decolla in ritardo, una persona mi sorride o invece mi chiude il telefono in faccia, il capufficio elogia o stigmatizza il mio operato. Tutto registrato dai sensi e processato dal mio pensiero. Fin qui, la serie è disomogenea.
    Occorre il diritto per distinguere tra specie diverse di fatti, nonché tra fatti e atti. Non posso diffondermi ora, ma annoto solamente che l’esplorazione del punto di contatto, diciamo così, tra la dottrina psicoanalitica (Freud) e la scienza del diritto (Kelsen) è ciò che ha consentito a Contri di formulare l’idea che la vita psichica è sempre vita giuridica, dunque imputabile. È un’idea incomprensibile ai più, me ne rendo conto, ma potabile e digeribile per chi, avendo conosciuto la cura del divano, abbia avuto modo di apprezzarne i risultati.
    Fatto è ogni accadimento naturale o atto umano che abbia avuto conseguenze nella vita di un individuo o addirittura della collettività. Non esistono ‘fatterelli’, neppure nella vita quotidiana intessuta com’è di rapporti, abitudini, appuntamenti, successi o insuccessi, etc.
    La stima intellettuale per la categoria del fatto promuove in chiunque (credenti e non) un sovvertimento generale della mentalità, un eccitamento del pensiero in quanto tale: finalmente liberi di farci venire delle buone idee!

    Con queste mie note non ho inteso sant(on)izzare Freud, né ‘psicanalizzare’ Giussani. Ho invece preso sul serio una questione in sé semplice, quella della capacità stessa di osservare i fatti, ad ogni livello. Se non suonasse rétro, sarebbe il caso di dire: ce n’est qu’un début, è solo un inizio.

     


    * Articolo pubblicato il 18 agosto 2017 nella rubrica Father and Son del sito www.culturacattolica.it

    [1]  Così Contri chiamò Giussani in uno scritto di molti anni fa, che ora non ritrovo. L’intervista è reperibile online: http://societaamicidelpensiero.it/wp-content/uploads/170716REP_GBC3.pdf. Essa è stata ripresa da Il Sussidiario, 27 luglio 2017: http://www.ilsussidiario.net/News/Cronaca/2017/7/27/DON-LUIGI-GIUSSANI-Lo-psicanalista-Contri-per-lui-Gesu-era-un-fatto-fu-un-fulmine-a-ciel-sereno-/775760/

    [2] Cfr. Freud speaks to the BBC, http://societaamicidelpensiero.it/wp content/uploads/Testo_intervista_BBC_Freud.pdf, editor M. G. Pediconi. Nel brano che ho riportato in questa pagina, come in tutti quelli successivi, i corsivi sono miei.

    [3] Questo breve brano fu scelto da Contri come apertura delle prime pubblicazioni di Sic (giugno 1975), l’iniziativa editoriale cui aveva dato l’abbrivio in quegli anni, e dei libri di quella prima collana (tra cui La tolleranza del dolore e Lacan in Italia). Sic significa ‘è così’.

    [4] L. Giussani, All’origine della pretesa cristiana, Jaca Book, 1988, pag. 56 e pag. 47.

    [5] G.B. Contri, Luigi Giussani e il profitto di Cristo, pro manuscripto, 2005, pag. 9. http://societaamicidelpensiero.it/wp-content/uploads/050510BB_GBC3.pdf

    [6] G.B. Contri, … E Dio non creò l’inconscio, in: La questione laica, Sic Edizioni, 1991, pagg. 77-105.

    [7] G.B. Contri, “Sol questo pure a Dio non è concesso…”, in: AA.VV., L’Aldilà. Il corpo, Sic Edizioni, 2000, pagg. 91-93.

    [8] Debbo questa osservazione, che faccio mia, ad una recente conversazione con Maria Gabriella Pediconi.

    [9] G. Contri, Lacan in Italia, Sic 1978. Subito, leggendo, pensai che bisognava saperla lunga per scrivere una frase come quella.

    [10] Per un rapido excursus quanto alla definizione del sostantivo ‘fatto’ mi sono servito del Grande Dizionario della Lingua Italiana di S. Battaglia, vol. V. Dopo una prima e più generale definizione, ne segue una seconda, coerente con la precedente e più vicina all’uso del termine nelle discipline scientifiche: Ciò che è (o può essere) oggetto dell’esperienza scientifica, nella sua funzione di guida allo studio dei fenomeni di ogni ordine e grado e alla scoperta delle leggi che li governano.

    [11] Ancor più interessante è la definizione del lemma ‘fatto’ nell’ambito del diritto, ovvero il concetto di fatto giuridico: circostanza, accadimento a cui la norma giuridica ricollega il prodursi di conseguenze giuridiche, cioè la costituzione, la modifica, o l’estinzione di diritti, doveri, rapporti, situazioni giuridiche (e il temine è usato per designare sia l’astratto modello di accadimento delineato da una norma giuridica, sia il concreto accadimento storico che corrisponde al modello legale). Fatto giuridico naturale, fatto giuridico volontario: a seconda che non dipende o che dipende dalla volontà dell’uomo (nell’ambito di questa seconda categoria si distinguono a loro volta i fatti illeciti e i fatti leciti, a seconda che sono o no vietati dal diritto, come i reati e, rispettivamente, i contratti).

     

     

     

  • Freud con Goethe

    “Quello che erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo, per possederlo” *

    Prima di archiviare l’estate appena trascorsa, propongo una nota sul tema dell’ultimo Meeting di Rimini, “Quello che erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo, per possederlo”: uno dei titoli migliori nella storia della kermesse riminese.[1] La frase (Was du ererbt von deinen Vätern hast, / Erwirb es, um es zu besitzen) è tratta dal Faust, l’opera più celebre del massimo poeta tedesco, W. J. Goethe (1749-1832), ed è nota a molti. Pochi, però, sanno che anche Freud l’ha citata, rivelandola per ciò che essa è: una questione fondamentale per la civiltà stessa. Il tema meriterebbe una trattazione ben più ampia, mentre mi limiterò a delineare appena il nocciolo dell’apporto freudiano. [2]

     

    FREUD CON GOETHE: IL DISCORSO NELLA CASA NATALE DEL POETA

    “L’onore che mi tributate, e che mi sorprende, (…) evocando la figura universale del Grande che nacque in questa casa, che trascorse in queste stanze la sua infanzia, ammonisce in un certo senso a render conto del proprio operato di fonte a lui, e pone la questione di come si sarebbe comportato lui, se il suo sguardo attento ad ogni innovazione scientifica fosse caduto anche sulla psicoanalisi.” [3]
    Sono parole di Freud in occasione del Premio Goethe, conferitogli a Francoforte nel 1930, nella casa natale del poeta: il discorso, letto dalla figlia Anna – egli, già molto malato, non poté recarvisi personalmente – ha attirato l’attenzione di diversi studiosi, anche tra coloro che non sono psicoanalisti. Ad esempio, Tomas Anz, nel saggio Una linea retta da Goethe a Freud, [4] osserva come Freud rovesciò le attese di quanti si aspettavano che egli si giustificasse per essere stato accostato a Goethe, autore che del resto conosceva a menadito, come ogni viennese o tedesco colto dell’epoca, e per il quale nutriva una enorme ammirazione. Non senza ragione, “la vicenda di Faust è stata considerata un’anticipazione della psicoanalisi”. [5] Il brano riportato è un esempio della posizione di Freud nei confronti di molti autori classici, il cui retaggio egli teneva nella massima considerazione, pur senza alcuna timidezza o ossequio pregiudiziale. Nel caso di Goethe, viene da pensare che egli sia stato influenzato anche da un’altra opera del poeta, Il divano occidentale-orientale (1819): mi riferisco all’uso del divano in quella particolarissima conversazione che è la seduta psicoanalitica.

     

    FREUD RACCOGLIE LA QUESTIONE DI GOETHE

    Fra le molte citazioni di Goethe riportate da Freud, segnalo solo quelle relative al nucleo ora in esame, un nucleo che lo stesso poeta sembra evocare da un duplice punto di vista: dalla posizione del figlio-erede, o allievo, e da quella del padre, o maestro.
    La posizione del figlio-erede è richiamata nel monologo di Faust, ed è appunto la frase posta a titolo dal Meeting: “Quel che hai ereditato dai tuoi padri / riguadagnatelo, per possederlo.”
    La posizione del padre o del maestro è invece messa in bocca a Mefistofele, ed è complementare alla precedente: “Addentrarsi in indagini scientifiche non serve: / ognuno impara solamente quel che può.” E ancora: “Tanto quel che sai di meglio / non puoi dirlo ai tuoi alunni”. [6]
    Il gap generazionale non è dunque un fenomeno del Novecento o degli anni della contestazione. Allo stesso tempo, è interessante notare che “Faust e Mefistofele si dividono i ruoli ma agiscono in vista del medesimo scopo.” [7] Viene da pensare che Goethe abbia rielaborato in questo modo il rapporto non facile che ebbe col proprio padre, uomo colto e benestante, il quale si dedicò a lungo alla formazione del figlio, avviandolo a quella carriera di avvocato che invece il giovane decise ben presto di abbandonare.
    Questa tensione, insita in ogni passaggio generazionale, è proprio ciò che destò l’interesse di Freud, costantemente attento ad individuare tutto ciò che compone il ‘complesso paterno’.
    Occorre però sbarazzare il campo da un equivoco, suggerito dalla presenza dell’albero stilizzato nella locandina del Meeting. Con le sue linee e i campi geometrici che ricordano Piet Mondrian, l’immagine non rende ragione alla questione goethiana: infatti nell’ereditare non vi sono radici o frutti, bensì atti prettamente giuridici, cioè umani.

     

    LA MEDESIMA QUESTIONE SECONDO FREUD

    Nelle ultime pagine di Totem e tabù (1912-13) troviamo un esame molto attento di ciò che consente il progresso nella civiltà: “Se i processi psichici di ogni generazione non si prolungassero nella generazione successiva, ogni generazione dovrebbe acquisire ex novo il proprio atteggiamento verso l’esistenza, e non vi sarebbe in questo campo nessun progresso e in sostanza nessuna evoluzione. (…)  E di quali mezzi e vie si serve una generazione per trasferire alla successiva le proprie condizioni psichiche? [quesito perfetto, ndr] Non sarò io ad affermare che questi problemi siano stati sufficientemente chiariti, o che la comunicazione diretta e la tradizione, alle quali si pensa come prima cosa, siano sufficienti alla bisogna. (…) il compito sembra assolto in parte con l’ereditarietà di alcune disposizioni psichiche, che richiedono tuttavia una certa spinta individuale per ridestarsi e diventare operanti. Forse è questo il senso delle parole del poeta: “Ciò che hai ereditato dai padri / riconquistalo, se voi possederlo davvero”.
    Freud non si ferma qui, ma fa un passo ulteriore: “Il problema apparirebbe ancora più difficile se dovessimo ammettere che esistono moti psichici tali da poter essere repressi così completamente che di essi non resta traccia alcuna. Ma moti del genere non esistono. Anche la repressione più violenta è costretta a lasciare spazio a moti sostitutivi deformati e alle reazioni che ne conseguono. Ma se le cose stanno così, possiamo formulare l’ipotesi che nessuna generazione sia in grado di nascondere alla generazione successiva processi psichici di una certa importanza. La psicoanalisi ci ha infatti insegnato che ogni uomo possiede nella sua attività psichica inconscia un apparato che gli consente di interpretare le reazioni di altri uomini, ossia di far recedere le deformazioni che l’altro ha imposto all’espressione dei propri impulsi emotivi. Su questa stessa strada (…) può essere riuscito a generazioni successive di fare propria l’eredità emotiva delle generazioni precedenti.” [8]  [il corsivo nel testo è mio, ndr]
    Apprendiamo così che per Freud un pensiero non può mai essere rigettato fino a scomparire del tutto e a far sì che non lasci traccia di sé. Pur se deformato, esso trapela fino a divenire pubblico, cosicché le generazioni successive possono accorgersi delle deformazioni operate da quelle precedenti e ricostruire quanto era stato rimosso. Non è il caso di drammatizzare, come invece fa l’isteria: anche i padri possono venire ‘sgamati’, e il modo più mite per farlo è ricorrere ad un’analisi. Se mi è consentita un’altra espressione gergale, direi che Freud invita ciascuno a ‘darsi una mossa’. Insomma, figli non si nasce, ma si diventa.

     

    IL ‘PROFITTO TEORICO’, O LA PRIMA VOLTA DELLE NUOVE GENERAZIONI

    Freud era consapevole di essersi proposto un compito che esulava dai limiti della formazione ricevuta anzitutto dal proprio padre. Inoltre, la riluttanza e l’ostilità con cui le sue prime scoperte furono recepite dall’ambiente medico viennese lo convinsero ben presto della novità e della portata di tali scoperte.
    Quando scrisse che “il Super-io è l’erede del complesso edipico”, sentì il bisogno di aggiungere che esso “si insedia solo in seguito alla liquidazione di quest’ultimo”. Ora: il complesso edipico designa il pensiero ben formato del bambino allorché la sua ricerca del soddisfacimento incontra la differenza tra i sessi e quella tra le generazioni. Dunque il Super-io (la coscienza morale) non è tanto l’erede di quel primo pensiero, quanto piuttosto l’usurpatore. [9] Passato e presente non si compongono necessariamente in una sintesi, ma disegnano i confini in cui solo il lavoro di pensiero dell’individuo può venire a capo del conflitto, talvolta con successo, talaltra con discrepanze e insuccessi. Il futuro sarà l’esito di questa ricapitolazione individuale, e dipenderà da quello che sarà stato il lavoro costituente di ognuno.
    L’apporto dei genitori e degli educatori può essere certo rilevante, ma non è affatto garantito che si riveli benefico in ogni caso: spesso, anzi, gli adulti mostrano di non essere all’altezza di una legge compiuta dei propri moti, finendo per deludere e confondere il bambino.
    Nel caso della nevrosi, questi riesce, benché a fatica, ad individuare altri sportelli grazie ai quali potrà riorientare i propri moti. Freud parla addirittura di un ‘profitto teorico’: l’aggettivo teorico in questo caso è tutto da scoprire. Infatti ha a che fare con il mangiare, correre, disegnare e mille altre azioni che il bambino eredita e ripete in altrettante ‘prime volte’ rispetto alle generazioni che lo hanno preceduto. [10] Solo così egli può riconoscere e consolidare le proprie competenze e abilità, ben oltre ogni modellizzazione o misurazione (Q.I., scale di intelligenza e test non servono o sono addirittura dannosi).

    Faust o non Faust, ciascuno farà bene a non lasciarsi arrestare o inibire da alcun ipse dixit, e a procedere a ricapitolare quanto gli è stato insegnato, o che ha letto e ascoltato. Ereditare comporta seguire i propri eccitamenti, come pure seguire chi li ha destati o ri-destati, insieme alla spinta ad emulare i padri e i maestri. Il monito di Goethe rilanciato dal Meeting resta di cruciale importanza.
    Il fatto è che Freud a Rimini… non c’era: ce l’ho portato io adesso.

     


    * Articolo pubblicato il 6 ottobre 2017 nella rubrica Father and Son del sito www.culturacattolica.it e l’11 ottobre 2017 sul sito www.societaamicidelpensiero.it.

    [1]  Questa traduzione, adottata dai promotori del Meeting, si discosta leggermente da quella di A. Casalegno (Faust Urfaust, Garzanti 1990, pagg. 52-53): “Quello che hai ereditato dai tuoi padri, guadàgnatelo, per possederlo”, come pure da quella che troviamo nelle Opere di Sigmund Freud (Bollati Boringhieri, vol. VII, pag. 161): “Ciò che hai ereditato dai padri, riconquistalo, se vuoi possederlo davvero.” Infatti il tempo presente (erediti) non traduce letteralmente, ma ha il vantaggio di mostrare come l’ereditare non sia qualcosa di concluso una volta per sempre, ma continui a rinnovarsi nel presente. Per quanto riguarda “erwirb es”, l’aggiunta del prefisso (ri-guadagnalo, ri-conquistalo) forse non convince pienamente, poiché il verbo tedesco non indica una ripetizione in senso stretto; tuttavia è corretta se quel ri- significa “ogni volta, tutte le volte”. (Ringrazio Maria Guidarelli e Peter Aufkleiter per i loro suggerimenti a questo riguardo).

    [2] Il Meeting 2017 ha offerto più di un’occasione di riflessione intorno all’eredità: ad esempio, la sorprendente mostra curata da Giuseppe Frangi Il passaggio di Enea, che presenta l’artista contemporaneo come un nuovo Enea; l’originalissima e suggestiva rappresentazione teatrale Padre e figlio, opera del drammaturgo Fabrizio Sinisi; l’avvincente lezione del prof. J.H.H. Weiler, Rubando l’eredità dei padri. Giacobbe ed Esaù. Su questi importanti contributi mi propongo di ritornare più avanti.

    [3] Cfr. S. Freud, Discorso nella casa natale di Goethe a Francoforte, OSF, vol. XI, pag. 7.

    [4] T. Anz, Eine gerade Linie von Goethe zu Freud. Zum Streit um die Verleihung des Frankfurter Goethe-Preises im Jahre 1930, http://literaturkritik.de/id/9478

    [5] Cfr. A. Casalegno, Note, in: Faust Urfaust, op. cit., pag. 1205.

    [6] Cfr. S. Freud, Autobiografia (1924), OSF, vol. X, pag.77, e Discorso nella casa natale di Goethe a Francoforte, OSF, vol. XI, pag. 12.

    [7] Cfr. G. Mattenklott, Introduzione, in: Faust Urfaust, op. cit.

    [8] Cfr. S. Freud, Totem e tabù (1912-13), OSF, vol. VII, pagg. 160-1.

    [9] Cfr. G.B. Contri, Lexikon psicoanalitico e Enciclopedia, Sic Edizioni, 1987, pag. 18.

    [10] Cfr. S. Freud, Compendio di psicoanalisi, parte terza, Il profitto teorico, OSF, vol. XI, pag. 634.

     

  • Renoir

    MIC, Viale Fulvio Testi 121 (MM5 Bicocca) Milano

    Regia di Gilles Bourdos
    con: Michel Bouquet, Christa Theret, Vincent Rottiers.
    (FRA 2012 col. 111’ v.o. sott. it.)

    quarto film del ‘Cine-seminario con la psicoanalisi’

    ONORA IL FIGLIO. L’XI COMANDAMENTO

    Costa Azzurra, 1915: la giovane Andrée fa il suo ingresso in casa Renoir, divenendo l’ultima modella del grande pittore impressionista, vecchio e malato, e in seguito la moglie del suo secondogenito, il futuro regista Jean Renoir.
    Appena quindicenne, ella si trova così al centro di un rapporto padre-figlio che si mostrerà solido nonostante lo scontro generazionale, il momento drammatico (lo scoppio della 1^ guerra mondiale) e il trasporto di entrambi per la medesima donna. Una storia preziosa quanto rara.
    Non solo: in casa Renoir avviene il passaggio dalla grande pittura di fine ‘800 alla cinematografia che nasceva in quegli anni.
    Gli interpreti sono bravissimi, e la fotografia sa evocare toni e luci degli ultimi capolavori del grande maestro dell’impressionismo.
    La pellicola, presentata a Cannes nel 2012, inspiegabilmente non è distribuita in Italia. Ma è uno dei film più belli che io abbia mai visto. Da non perdere.

    Leggi la scheda del film sul sito del MIC

    INFO
    MIC, Viale Fulvio Testi 121 (MM5 Bicocca) Milano, 20 aprile 2017, ore 20.30.
    Raccomando di arrivare alle 20.15. I posti sono limitati. La prenotazione è obbligatoria.
    Se è interessata/o, invii al più presto l’adesione all’indirizzo
    alcinemaconfreud@glaucomariagenga.it. Riceverà conferma via email.
    È gradito un contributo alle spese a partire da 5 euro.

  • Una donna sprint tra padre e figlio

    Una donna sprint tra padre e figlio

    Ci sono film e libri che con il passare del tempo non invecchiano, a differenza di altri che a distanza di decenni, o solo di anni, non suscitano affatto l’interesse o l’entusiasmo della prima volta. Come mai? Per ora lascio aperto l’interrogativo: ognuno può provare a rispondere in proprio.

    La gatta sul tetto che scotta (1958)[1] è appunto un film ‘sempreverde’, ad alta tensione morale e confezionato in modo elegante e lieve. Recitato in maniera perfetta da tutti gli interpreti, tra cui spiccano Elizabeth Taylor e Paul Newman,[2] ottenne un grande successo e sei nomination all’Oscar, pur non vincendone neppure uno. Il film ha quasi sessant’anni, ma non li dimostra.

    ‘La gatta sul tetto che scotta’: un cenno alla trama

    Mississippi, anni Cinquanta: «Un autoritario barone terriero malato di cancro festeggia il 65° compleanno insoddisfatto dei due figli, uno dei quali è un avido bruto e l’altro un ex-atleta nevrotico che rifiuta di dormire con la bella moglie» (Morandini). Il regista e sceneggiatore Richard Brooks, figlio di immigrati russi di origine ebraica, adattò per il cinema l’omonima pièce teatrale di Tennessee Williams,[3] che in quegli anni era in cartellone al Morosco Theatre di New York. Brooks ne fece un ottimo dramma familiare, imperniato sullo «scontro generazionale e catarsi collettiva» (Mereghetti). Memorabili le scene in cui la giovane moglie cerca di sedurre il marito renitente.[4] In un certo senso la protagonista dell’intera storia è proprio lei, Maggie “la gatta”, sul cui soprannome tornerò tra poco. Bellissima lei, bellissimo lui, eppure le cose tra loro non funzionano, it doesn’t work out. La coppia sembra destinata a non avere alcun futuro, né figli.[5] Il marito (Brick) non fa che attaccarsi alla bottiglia, logorato dal senso di colpa per la perdita dell’amico Skipper, suicidatosi anni prima in circostanze mai chiarite. Maggie è arrabbiatissima (sia pure in modi assai civili, se paragonati agli stili narrativi ben più aggressivi di oggi): la giovane proviene da una famiglia povera, e non intende affatto mandare a rotoli matrimonio e posizione sociale, persuasa che il marito possa ancora riprendersi e guidare la ricchissima azienda paterna. Il fratello e la cognata di Brick non fanno che aspettare la morte del padre (Bid Daddy) mentre mentono a tutto spiano sulle proprie intenzioni e incolpano Maggie di non aver dato alla luce neanche un figlio. Attraverso i fantasmi del passato, lo scontro tra Brick e suo padre troverà infine una soluzione proprio grazie all’intraprendenza di Maggie, a vantaggio di molti, se non di tutti.
    A onor del vero, il film non fa capire chiaramente la vera ragione del sospeso tra padre e figlio, perché Brooks dovette stemperare ogni riferimento all’omosessualità del personaggio del giovane, in obbedienza al codice di autoregolamentazione in vigore in quegli anni nel cinema statunitense.[6] Il passato di Brick viene rappresentato in modo tale da non svelare granché. Afferriamo però il nocciolo del conflitto: il figlio sente di avere deluso le aspettative del padre, che avrebbe voluto farne una star del football.
    Va detto che il film fu realizzato superando difficoltà diverse e crescenti: all’inizio Newman, allora molto meno celebre della Taylor, si lamentò ripetutamente con il regista per la recitazione della diva, a suo giudizio troppo passiva e scostante durante le prove. Ma il 22 marzo 1958 il marito della Taylor, allora ventiseienne e già al terzo matrimonio, morì improvvisamente precipitando con il suo aereo privato (il Lucky Liz), sul quale avrebbe dovuto trovarsi anche la moglie. L’attrice, rimasta vedova con tre figli piccoli tra cui la terzogenita di appena sette mesi, dapprima rifiutò di proseguire le riprese del film, trattando il regista a male parole, ma poi tornò sui suoi passi spontaneamente. Brooks dichiarò: «Non è mai mancata un giorno e non è mai arrivata in ritardo»: la sua forza d’animo sorprese tutti e contribuì a creare un ottimo clima sul set.[7]

    Che c’entra la ‘gatta’?

    Il titolo suona un po’ frivolo e non rende giustizia alla vicenda, che invece non lo è affatto. Nella sceneggiatura di Brooks, Maggie si adopera in tutti i modi per riconquistare lo scontroso marito e allo stesso tempo non nasconde il suo trasporto per il suocero, ancor prima che a costui venga diagnosticato un cancro incurabile. Il ‘tetto che scotta’ allude al clima di menzogna imputabile a tutti i componenti della famiglia: dunque la sua non è affatto una condotta isterica o irragionevole. Persino nel finale, allorché dichiara di essere incinta mentre non lo è ancora, si mostra intelligente e coraggiosa. Mente anch’essa? Niente affatto. Piuttosto getta le basi per ricostruire l’intesa con Brick. Maggie bluffa, non bara: tanto di cappello! Nei decenni successivi il cinema, nel rappresentare il rapporto tra i sessi, ci ha quasi assuefatti ad ogni specie di impasse, come se il fallimento sia l’unico destino cui può andare incontro la vita sessuale.
    Anche il rapporto tra Maggie e Big Daddy è degno di nota; a me ha ricordato la stima e l’affetto che legavano Sigmund Freud alla moglie di suo figlio Ernst, Lucie Brasch. Freud «presto sviluppò una cordiale simpatia per la nuova nuora, la quale lo contraccambiava al punto da confessare al marito: “Sono contenta di non averlo conosciuto prima di te. Mi sarei sempre tormentata a chiedermi se è a causa sua che io amo te”.»[8] Qualcosa del genere è di buon auspicio per ogni matrimonio: Freud mette in guardia gli uomini dallo sposare donne in grave conflitto con il proprio padre.
    Viene da pensare che Tennessee Williams abbia creato il personaggio di Maggie via identificazione: la “gatta” è lui stesso, e la protesta della giovane donna rappresenta in un certo senso la reazione del drammaturgo al mito americano del macho. Williams è arrivato fino a qui.

    La soluzione vantaggiosa…

    … è economica ed è incentrata sul profitto.[9] Ma occorre qualcuno che lo sappia produrre: non bastano gli acri di terra o le ingenti somme di denaro accumulate dal patriarca. La lamentela del fratello di Brick («ho fatto tutto quello che papà ha voluto… non è giusto!») ricorda la parabola evangelica dei talenti: chi non ci mette niente di suo non è davvero affidabile, né è un erede. I due figli incarnano due generi di obbedienza opposti.
    Mi servo ancora del vangelo: «Un uomo aveva due figli; rivoltosi al primo disse: Figlio, va’ oggi a lavorare nella vigna.  Ed egli rispose: Sì, signore; ma non andò.  Rivoltosi al secondo, gli disse lo stesso. Ed egli rispose: Non ne ho voglia; ma poi, pentitosi, ci andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?”. Dicono: “L’ultimo”.» (Matteo, 21; 28-32)
    La statura di Big Daddy emerge verso la fine del film, nell’incontro-scontro con Brick nella grande cantina zeppa di oggetti obsoleti, che sembrano ricordargli l’ineluttabilità della morte. Nella confessione circa il rapporto con il proprio padre (“amavo quel vagabondo”), Big Daddy si sorprende capace di essere ancora figlio. Da quel momento, egli torna ad essere interessante per Brick. La scena, che fu introdotta da Brooks (nel dramma di Williams non ve n’è traccia), è il momento più toccante del film, tutto intessuto intorno ad un doppio intreccio: quello del rapporto uomo-donna vòlto al profitto, e quello in cui padre e figlio si fronteggiano nella ricerca appassionata di una soluzione che valga per entrambi.

    Nel prossimo film (Shine, 1996, regia di Scott Hicks) vedremo come la psicopatologia, nella fattispecie la psicosi, abbia invece una forte connotazione antieconomica, cosicché il titolo (Shine, splendore, fama) suona come uno sberleffo.

     

     


    [1] Cat on a Hot Tin Roof, USA 1958, col., 108’. Regia di Richard Brooks. Con: Elizabeth Taylor, Paul Newman, Burl Ives, Judith Anderson. Ho proposto questo film il 23 febbraio scorso al Museo Interattivo del Cinema (MIC) all’interno del Cine-seminario con la psicoanalisi Onora il figlio. L’undicesimo comandamento. Alla proiezione è seguito un breve commento a più voci, cui ha partecipato il prof. Marco Cucco, docente di economia del cinema all’Università della Svizzera Italiana e professore a contratto presso l’Università Cattolica di Milano.
    Questo articolo è in uscita in questi giorni sul sito www.societaamicidelpensiero.it, mentre una prima stesura è apparsa il 14 marzo scorso nella rubrica Father&Son del sito www.culturacattolica.it.

    [2]  A Paul Newman ho già dedicato altri due articoli: Intraprendenti: padre e figlio nel film ‘La lunga estate calda’ (1958) e L’omaggio di un freudiano a Paul Newman (redatto a pochi giorni dalla morte dell’attore).

    [3] Tennessee Williams (1911-1983) fu un autore molto prolifico; tra i suoi drammi di maggiore successo: Lo zoo di vetro (1944), Un tram che si chiama desiderio (1947), La gatta sul tetto che scotta (1955) e Improvvisamente l’estate scorsa (1958). In molte sue opere è presente un richiamo, ironico e/o provocatorio, all’omosessualità. L’adattamento cinematografico di Cat on a Hot Tin Roof non lo convinse affatto.

    [4] La candida e raffinata sottoveste indossata dalla Taylor per buona parte del film contribuì – non senza ragione -al lancio di questo capo di lingerie che si andava affermando in quegli anni. Lo stesso accadde per la virile canottiera indossata da Brando in Un tram che si chiama desiderio (1951) e, ancor prima, per l’impermeabile di Bogart in Casablanca (1942). Il nesso tra cinema, costume e industria non è da dimostrare: è meglio non esercitare troppi distinguo tra cinema commerciale e autoriale ogni volta che un messaggio o un’idea raggiungono e influenzano milioni di persone.

    [5] Una nota per i lettori più curiosi o più accorti. Che cosa pensare del rimprovero della madre di Brick alla nuora? «Insomma, qui c’è qualcosa che non va! Tu non hai figli, mio figlio beve! Quando un matrimonio affonda, cara mia, lo scoglio è il letto!» (When a marriage goes on the rocks… the rocks are there, right there!). C’è qualcosa di irrisolto in questa denuncia: per come essa è formulata, non è chiaro se i sessi soffrano per un’impasse che ha la propria origine altrove, o se invece ne siano la causa. Cambia tutto: il primo caso ricorda il rifiuto della posizione femminile, o ricevente, che Freud indica come ultimo ostacolo alla guarigione (la “roccia basilare”, in Analisi terminabile e interminabile (1937); nel secondo caso avremmo il solito stereotipo, ‘la sessualità’.

    [6] «Il Production Code, o codice Hays, è una forma di autocensura che l’industria cinematografica statunitense adottò fin dagli anni ’30, a seguito di una serie di scandali legati alla vita privata di attori e registi dell’epoca. In forza di esso, tutti i film, per arrivare nelle sale, dovevano rispettare una serie di regole circa le scene di nudo o di rapina, la religione, la bandiera nazionale, etc. Il codice rimase in vigore sino al 1967, anche se col passare degli anni le sue maglie divennero più morbide. Dal 1967 venne sostituito da un rating system: alcuni film furono vietati ai minori di 14 o di 18 anni. In tal modo non si censurava più il contenuto, ma si regolamentava chi poteva avere accesso ad una determinata tipologia di contenuti.» (M. Cucco, dai miei appunti).

    [7] Cfr.: S. Levy, Paul Newman. Una vita. Trad. di F. Pedroni, Baldini Castoldi Dalai, 2010, pag. 133.

    [8] S. Freud, Intanto riminiamo uniti. Lettere ai figli, Archinto 2013, pag. 145. Inoltre, poco dopo la scomparsa della figlia Sophie (1920), Freud si rivolse alla futura nuora con queste parole: «Mia cara figlia, (…) come tu hai perso un padre amato, così io ho perso da poco una figlia e da allora sono così ferito, che non oso credere nella buona sorte. Ma pare che la buona sorte sia ancora possibile, e che essa sia tu.» (pag. 161). Per un approfondimento circa il rapporto tra Freud e i suoi figli, rinvio a: G.M. Genga e M.G. Pediconi, Ubi bene ibi patres. Freud e i suoi figli, Gli Argonauti n. 150, Carocci, settembre 2016.

    [9] Circa la rilevanza del profitto nel rapporto padre-figlio, G.B. Contri ne ha parlato e scritto più volte, come ho indicato nel mio articolo recente Nel nome del Padre, del Figlio e del… Profitto.