Categoria: Father & Son

  • W la Storia!

    Sono diventato un fan del Corriere della Sera. Abito da vent’anni a due passi da via Solferino, ma non ho mai sentito il Corriere così vicino come in questo mese, cioè da quando pubblica, il mercoledì e giovedì di ogni settimana, le sue prime pagine, dall’esordio del 5 marzo 1876 ad oggi. Qui sopra: l’annuncio dell’inizio della Repubblica all’indomani del referendum del 2 giugno 1946.

    Lodevolissima iniziativa, che spero incontri il successo che merita. Si sa, infatti che un numero crescente di giovani, e meno giovani, non leggono i quotidiani.

    Per Hegel la lettura della Gazzetta era «la preghiera del mattino dell’uomo moderno», ma le cose non stanno più così. La prima volta che udii questo giudizio fu nel 1978: lo sosteneva Giacomo Contri, in un corso che tenne al Circolo Filologico (in seguito vi è tornato più volte, come in questo blog: https://www.giacomocontri.it/2006/11/preghiera-laica/).

     

    Ma oggi? Nessuno stacca lo sguardo dallo smartphone… con molte conseguenze.

    Come consulente dell’Aeronautica, mi trovo a firmare provvedimenti di idoneità a chi vuole conseguire la licenza per pilotare un aereo, ma non mi lascia indifferente costatare che più di un giovane aspirante pilota non conosce il nome del nostro Presidente della Repubblica, pur sapendo pressoché tutto dell’ultima polemica social sui Ferragnez…

    Quando frequentavo il liceo, l’educazione civica era chiamata la Cenerentola di tutte le materie. Cosa curiosa, era così anche per la religione. Un errore nell’impostazione degli studi classici. Ma l’ho compreso solo “da grande”.

     

    L’iniziativa del Corriere mi fa pensare ai fatti che hanno cambiato la storia.

    Nel suo discorso del 31 dicembre 2017, il Presidente Mattarella ha definito la Costituzione Italiana la nostra «cassetta degli attrezzi». Notevole. Nel novembre scorso, al Centro Asteria di Milano, ho partecipato ad un incontro con la professoressa Cartabia, dal titolo La Costituzione al centro. L’auditorium era gremito di centinaia di liceali e altrettanti erano collegati online. In uno dei passaggi più rilevanti, l’ex-ministro della Giustizia, già Presidente della Corte Costituzionale, ha ricordato il contributo decisivo di La Pira ai lavori dell’Assemblea Costituente, e in particolare il significato della sua rinuncia al Preambolo.

    «Il 22 dicembre 1947 il giurista siciliano prese la parola un’ultima volta per chiedere che fosse posta in qualità di preambolo alla Costituzione la formula: “In nome di Dio il popolo italiano si dà la presente Costituzione”. Alla proposta seguì un dibattito ferratissimo che mise in pericolo l’unità dell’assemblea. La Pira, pallido in volto, si fece un ampio e devotissimo segno di croce e ritirò la proposta, dicendo: “Se tutto questo dovesse produrre la scissione dell’Assemblea, io per conto mio non posso dire che questo: che ho compiuto secondo la mia coscienza il gesto che dovevo compiere”.»

    (https://www.politicainsieme.com/giorgio-la-pira-e-la-costituzione-di-nino-giordano/)

    Questo punto meriterebbe un approfondimento molto più ponderato; ora lo menziono solo perché la vicenda del Preambolo è un esempio dell’eccellente lavoro legislativo dei 556 Padri costituenti. Faremmo bene ad averlo presente, al netto di ogni considerazione di natura politica. Non nascondo che non mi sono mai piaciute le espressioni giornalistiche Prima e Seconda Repubblica, perché sono fuorvianti.

     

    Un altro esempio, tra i molti possibili. Nel giugno scorso, appena tornato da Siracusa dove avevo assistito alla rassegna del teatro antico (tutti dovrebbero andarvi almeno una volta), incontro due giovani colleghe, cui racconto qualcosa: «L’interpretazione di Laura Marinoni della Medea è stata fantastica! Invece il Prometeo incatenato non mi ha convinto…» Le colleghe mi guardano con occhi smarriti: i nomi Medea e Prometeo non dicono loro nulla: «Ma doc, lei ha fatto il classico!».

    Poiché non era mia intenzione metterle in imbarazzo, non ho insistito, ma l’eco dell’episodio non si è affievolita in me. Quando quelle colleghe riceveranno nei loro studi professionali donne affette da psicosi post partum, o lavoreranno a perizie in casi di infanticidio, la vicenda di Medea sarebbe loro di grande aiuto. Ma non lo sanno! Eppure, anche chi non proviene da studi classici può entrare in libreria o sfogliare un quotidiano e imbattersi in un allestimento teatrale di Medea.

    Informo i lettori che nel prossimo luglio si svolgerà presso l’Università di Urbino una Summer School, promossa da Maria Gabriella Pediconi, dal titolo «Attualità freudiana. Un giurista legge Freud. Con esercizi sulla tragedia greca». Parleremo anche di Medea: il testo di Euripide verrà commentato da giuristi e psicoanalisti.

     

    Può capitare a tutti di imbattersi in modo personale nel racconto di un fatto storico. Ad esempio, un giovane studente universitario mi racconta di avere appreso dalla lettura del Vasari che Michelangelo, prima di morire, “abruciò gran numero di disegni, schizzi e cartoni fatti di man sua, acciò nessuno vedessi le fatiche durate da lui et i modi di tentare l’ingegno suo per non apparire se non perfetto.” La notizia l’ha colpito perché anch’egli non tollera che la sua preparazione sia men che perfetta. Gli  rispondo che i cartoni preparatori dei grandi artisti mettono al lavoro schiere di studiosi: lo stesso Buonarroti non sarebbe mai arrivato ad affrescare la Sistina senza quei cartoni. Resta che quel giovane ha avuto accesso, in un modo o in un altro, alle Vite del Vasari. Non capita spesso.

     

    Che cosa occorre perché si possa fare tesoro della storia, nella cultura come nella scienza, nell’economia o nell’arte? Direi: il racconto affidabile di chi sa di avere seguìto, nel proprio lavoro, una passione; non importa in quale disciplina o campo del sapere.

    Che c’entra tutto questo con la Pasqua? Per credenti e non credenti, è vero che la notizia di quella resurrezione ha fatto storia. Anzi, ha fatto la storia. Come mostra questo affresco: il geniale “pittore di Cluny” del XII secolo doveva avere in mente una qualche idea di Costituzione della Chiesa, perché il fondatore è rappresentato nell’atto di consegnare la legge a Pietro. Il nesso tra legge, diritto e legame sociale è ancora tutto da esplorare: «Dove due o tre sono riuniti nel mio nome io sono in mezzo a loro» (Mt. 18,15-20).

     

     Dedico questo articolo a Giovanna e a suo marito Antonio,
    alla loro storia nella storia.

     

  • Quale futuro per Caino? Una nota su ‘Padre e figlio’ di Fabrizio Sinisi

     

    Nell’articolo Freud con Goethe dell’ottobre scorso mi riproponevo di dedicare una pagina alla bellissima pièce teatrale Padre e figlio, rappresentata all’ultimo Meeting di Rimini.[1] Lo faccio solo ora, dopo alcuni mesi: tempi… biblici, ma pur sempre proporzionati, trattandosi di relazioni bibliche.
    Fin da bambino provavo un sentimento denso e spiacevole di fronte ai tantissimi delitti narrati nell’Antico Testamento: la colpa dei progenitori che ricade, chissà perché, su tutte le generazioni successive, un fratricidio, un ragazzino abbandonato dai fratelli nel deserto in una cisterna e venduto come schiavo, popoli interi passati a fil di spada, e via dicendo. L’infanzia e l’educazione di molti di noi sono state accompagnate da quei personaggi, storici o letterari che fossero. In Padre e figlio, il drammaturgo Sinisi ne offre una eccellente caratterizzazione, dotandoli di pensieri che rendono ragione degli atti loro attribuiti dalla Bibbia. Ora mi soffermerò su Caino.

     

    La pièce teatrale ‘Padre e figlio’
    Massimo Popolizio interpreta in modo straordinario il testo che Sinisi ha concepito partendo da alcuni brani dell’Antico Testamento. L’opera è suddivisa in tre capitoli: Caino e Abele; Abramo e Isacco; Giacobbe ed Esaù. Sulla scena l’attore non è l’unica presenza: un ruolo fondamentale è svolto dal Siman Tov Quintet, che esegue bellissimi brani di musica klezmer, genere tradizionale ebraico. Il tutto è arricchito dalla sorprendente arte interattiva di Massimo Ottoni: in piedi ad un lato del palco, egli sfiora lo schermo di un computer come se avesse in mano un pennello, mentre sullo sfondo del palcoscenico danzano forme colorate e sinuose in grande sintonia con le note. Un accompagnamento perfetto e coinvolgente.

     

    Caino e Abele: quando le economie erano separate
    Il racconto biblico riserva poche e scarne righe alla vicenda dei due fratelli. Sinisi ha potuto – e saputo – prestare loro una fisionomia, argomentazioni logiche, passioni ed affetti, offrendo allo spettatore molteplici spunti e suggestioni.
    Per esempio ad Abele, che conosciamo solo come prima vittima innocente, viene messa in bocca una pesante accusa verso il fratello maggiore: “Il Signore ama i semplici, e tu, Caino, pensi troppo”.
    Una vera infamia, la sua! Che significa? Non è cosa peggiore pensare troppo poco? Niente è più pericoloso della coppia malvagità-stupidità, come mostrano moltissimi episodi di cronaca nera.
    È quel che sostiene anche Woody Allen in più di un film: in particolare, Sogni e delitti (2007) è una rivisitazione lucida e impietosa del fratricidio, i cui protagonisti sono per l’appunto due fratelli, delinquenti e inetti allo stesso tempo.[2] Tipi così esistono davvero, e sono molto lontani da drammi o conversioni simili a quella creata dal Manzoni nella ‘notte dell’Innominato’.
    Tornando alla pièce, Caino ci viene presentato capace di dibattere con suo padre Adamo: “E Abele, che ha di meglio di me?’. ‘Abele dà quello che ha senza trattenere nulla. Dona e non vuole niente in cambio. Ha tutto perché vuole tutto. Davanti al Signore non ha segreti né pretese. C’è molto da imparare, in Abele. Ma tu non lo guardi. Non lo guardi mai.’ Non è vero che non lo guardavo. Lo guardavo eccome. Ma senza che nessuno mai se ne accorgesse.”
    Il Caino di Sinisi non si dà per vinto: “non solo i padri morirebbero per i figli, ma anche i figli morirebbero per i padri, se gli venisse chiesto. E uccidere Abele per me fu come morire, morire per te (si rivolge ancora al padre, ndr), morire perché tu finalmente mi guardassi per quello che ero: non l’altro, ma ‘io’, Caino, ‘io’.” Egli vuole, pretende che il padre conosca il suo smisurato ‘amore’ per lui, ora che è arrivato perfino ad uccidere per emanciparsi dal secondogenito così scomodo.
    Tema vasto e complesso. Freud osserva: “Il bambino piccolo non ama necessariamente i suoi fratelli, spesso palesemente non li ama affatto (corsivo mio, ndr).” “Si può osservarlo con maggiore facilità in bambini da due anni e mezzo fino a quattro o cinque anni, quando sopravviene un nuovo fratellino. Questi perlopiù ha un’accoglienza molto scortese. Espressioni quali: “Non mi piace, voglio che la cicogna se lo riporti via” sono assai frequenti. In seguito ogni occasione sarà buona per denigrare il piccolo arrivato, e tentativi di fargli persino del male, veri e propri attentati, non sono niente di inaudito.”[3]
    Dopo Freud moltissimi autori, psicoanalisti e non, hanno sottolineato il narcisismo di Caino, la sua incapacità di amare e i diversi ‘meccanismi psichici’ legati all’invidia che egli ha coltivato per non essere stato il preferito agli occhi dei genitori.[4] Ma simili commenti possono scivolare nell’errore, comune a tanta psicologia novecentesca, di separare la vita intrapsichica da quella reale, e l’economia affettiva dall’altra economia, che guida la politica e la società.
    Preferisco seguire il commento di G.B. Contri, che scrive: “Sulla vicenda di Caino e Abele è prevalsa l’idea del delitto passionale, ma non torna perché i due “fratelli” sono intercambiabili (poteva essere Abele a uccidere Caino, proprio come x e y sono intercambiabili). I due coltivano campi separati e non connessi (pastorizia e agricoltura), non sono “fratelli”, non hanno legame sociale, l’uno è civilmente morto per l’altro, una pura sagoma per l’altro”. Contri individua bene qual è l’errore comune ad entrambi: in ciascuno dei due “l’indifferenza precede e prepara l’ostilità. Nessuno dei due si è permesso di offrire appuntamento ossia di fare società d’affari come Regime dell’appuntamento.”[5]
    Per dirlo con uno slogan: l’alba della civiltà non ha visto il sorgere di una ‘Eredi di Adamo ed Eva S.p.A.’

     

    Nessuno tocchi Caino
    Nel testo biblico, quel fratricidio ha un seguito – anche se spesso la predicazione non ne fa menzione – nel grido accorato di Caino (“la mia iniquità è tanto grande che io non posso sopportarla!”) e nella pronta risposta di Jahvè, che proibisce a chiunque di ucciderlo; se ne può dedurre che, quando questo testo venne redatto, la legge del taglione era già in vigore presso quei popoli.
    Javhè – scrive ancora Contri – “gli lascia tempo per passare a nuovo Ordine, e infatti Caino “divenne un costruttore di Città”. Nessuno tocchi Caino è anche il nome di una nota lega internazionale, costituitasi nel 1993, attiva nella lotta contro la pena di morte e la tortura, nella ricerca di forme di giustizia in cui sia espunta ogni sete di vendetta.[6]
    Nel Caino di Lord Byron (1821), sia la madre Eva che l’Angelo del Signore paventano al fratricida le terribili conseguenze del suo atto: “Tu hai ucciso tuo fratello, e chi ti garantirà da tuo figlio?”[7] Il clima livido di quel momento è reso molto bene dall’impressionante dipinto di Fernand Cormon (1845-1924) riprodotto all’inizio di questa pagina: Caino si avvia all’esilio con tutti i suoi familiari. Poiché Abele non aveva generato figli, su quel carro è raffigurata in un certo senso l’intera umanità, perché tutti possiamo considerarci suoi discendenti. Nessuno può dirsi estraneo rispetto al compito di costruire un legame sociale foriero di pace. Ha dunque ragione Sinisi, quando sottolinea la contemporaneità dell’intera vicenda riproposta nel suo spettacolo.

     

    P.S.: Trovo che il Natale abbia a che fare con tutto questo, molto più che con la favola moderna dei buoni sentimenti, rappresentata al meglio da quel Canto di Natale con cui Dickens nel 1843 perfezionò la rimozione del Natale – perché di questo si trattò – reinventandone completamente il senso originario.[8]

     

     


    [1] Padre e figlio (sceneggiatura di Fabrizio Sinisi e regia di Otello Cenci) è stato rappresentato a Rimini il 23 agosto 2017. Autore, regista e interpreti hanno saputo portare all’attenzione di un vasto pubblico temi molto rilevanti. Rinvio all’intervista rilasciata da Sinisi a Il Sussidiario il 17 agosto 2017: Padre e figlio. Tra Bibbia e teatro per riscoprire i rapporti fondamentali per l’uomo. Mi auguro che lo spettacolo venga presto riproposto in diversi teatri italiani: merita.

    [2] I due anti-eroi di Woody Allen, ingenui eppure bastardi senza scrupoli, ricordano i balordi del film di Godard Bande à part (1964), sopravvalutato dalla critica, o i sicari di Fargo (1996) dei fratelli Coen, i quali trassero da un fatto di cronaca una sceneggiatura dal cinismo esasperato e quasi insostenibile.

    [3] S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, 1915-17, lezione 13, OSF, VIII pagg. 372-3.

    [4] Sull’argomento rinvio a: M.G. Pediconi, G.M. Genga, L. Flabbi, Invidia versus legame sociale. Una nuova idea di profitto, in: Teorie & Modelli, n.s., XVIII, 2, 2013 (7-23). Una breve rassegna di autori e opere che hanno riproposto la figura e il dramma di Caino tra ‘800 e ‘900 (tra cui Byron, Santucci, Borges, Lacan, Saramago e Steinbeck) si trova in A. Zaccuri, Caino, il dramma del fratricida, https://www.avvenire.it/agora/pagine/il-dramma-di-caino

    [5] G.B. Contri, Caino e Abele senza permesso, in Think!, 30 ottobre 2013: www.giacomocontri.it/2013/10/caino-e-abele-senza-permesso/

    [6] Al tema della vendetta è dedicata la rassegna The Dead-End Road of Revenge. Il vicolo cieco della vendetta, (MIC, Museo Interattivo del Cinema, Milano), che promuovo con la Società Amici del Pensiero in collaborazione con la Fondazione Cineteca Italiana, http://www.cinetecamilano.it/rassegna/the-dead-end-road-of-revenge-il-vicolo-cieco-della-vendetta-cine-seminario-con-la-psicoanalisi

    [7] Lord Byron, Cain. A Mystery, testo originale a fronte, con un articolo di J.W. Goethe, tr. it. di F. Milone, introduzione e note di G. De Lorenzo, Sansoni Ed., Firenze, 1942.

    [8] Dickens: l’uomo che inventò il Natale è il titolo dell’interessante film diretto dall’indiano B. Nalluri, con D. Stevens e C. Plummer, uscito in questi giorni nelle sale italiane.

  • Freud, Giussani, Contri e il concetto di ‘fatto’*

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    Che cosa hanno in comune un ebreo medico, un laico in sacerdozio, [1] uno psicoanalista di lungo corso già allievo di Jacques Lacan? Un medesimo punto di vista, una Weltanschauung, una filosofia? La religione, la psicoanalisi? Non è quel che sostengo, mentre sottolineo – porto a fattor comune – una parola presente e rilevante nell’opera di tutti e tre: il sostantivo ‘fatto’. L’idea mi è venuta leggendo l’intervista rilasciata recentemente da Giacomo Contri ad Antonio Gnoli (La Repubblica, 16 luglio 2017). [2]

     

    Freud è partito dall’osservazione dei fatti.
    Il 7 dicembre 1938, pochi mesi dopo il suo arrivo a Londra per sfuggire alla persecuzione nazista, la BBC chiese e ottenne di intervistarlo. In nota riporto il breve testo in lingua originale, poco più di una pagina, e il file audio. [3]
    “Sotto l’influenza di un amico più avanti negli anni e con i miei stessi sforzi, ho scoperto alcuni importanti fatti nuovi circa l’inconscio nella vita psichica, il ruolo delle sollecitazioni pulsionali e altro ancora. Da queste scoperte ha preso avvio una nuova scienza, la psicoanalisi, una parte della psicologia, e un nuovo metodo di trattamento delle nevrosi. Ho dovuto pagare pesantemente questa buona sorte. I più non davano credito ai miei fatti e ritenevano malsane le mie teorie. La resistenza è stata forte e spietata.”
    Freud impernia la sua dichiarazione proprio sui “fatti”, per descrivere la dura lotta che era sorta intorno alle sue scoperte. Non sta parlando di religione, ma della, – nonché dalla – nuova scienza da lui fondata in mezzo secolo di incessante lavoro a Vienna.
    Gli esempi di questi fatti possono essere molteplici: un sintomo (svenimento, dispnea, paralisi muscolare, tic), ma anche un lapsus e molti altri. Persino un sogno è un fatto della vita psichica.
    Un inciso: nel 1969 il regista John Huston, che aveva realizzato pochi anni prima il film Freud. The Secret Passion, ebbe a lamentarsi dei tagli imposti dalla produzione, e disse: “…dopo che furono fatti i tagli (Freud) cessa di essere un investigatore super-efficiente che lavora sempre con argomenti razionali sulla scorta dell’evidenza, e diventa un certo tipo di genio malato e ispirato che coglie le risposte giuste nel limbo dell’ispirazione”. Huston aveva capito il modo di lavorare di Freud.
    Del resto, il maltrattamento cui andò incontro Freud non era una novità. In Per la storia del movimento psicoanalitico (1914) egli scrisse:
    “Nella fase presente della lotta intorno alla psicoanalisi la resistenza contro i risultati della psicoanalisi ha notoriamente assunto una nuova forma. Prima, ci si accontentava di contestare che i fatti asseriti dall’analisi fossero un fatto, e a questo scopo la tecnica migliore sembrava quella di evitare di verificarli. Questo procedimento sembra andar lentamente esaurendosi. Oggi si batte l’altra strada, quella di esaminare i fatti, ma sopprimendo attraverso interpretazioni deviate le conclusioni che ne risultano, in modo da preservarsi ancora una volta da verità scandalose.” [4]

     

    Giussani: “Un fatto è un criterio alla portata di chiunque”.
    In uno dei suoi testi, Giussani scrive che “un fatto è un criterio alla portata di chiunque”, appoggiandosi all’affermazione di tale padre Pierre Rousselot, riportata da Henri de Lubac: “Il Cristianesimo è fondato su un fatto, il fatto di Gesù, la vita terrena di Gesù.” E ancora: “L’imperativo cristiano è che il contenuto del messaggio suo si pone come fatto. Ciò non sarà mai sottolineato a sufficienza. Un’insidiosa slealtà culturale ha reso possibile, per l’ambiguità e la fragilità anche dei cristiani, la diffusione di una vaga idea di cristianesimo come discorso (…). No: è anzitutto un fatto, un uomo che è entrato nel novero degli uomini”. [5]
    Nell’intervista a Gnoli, Contri si diffonde su don Giussani e sul rapporto personale che intrattenne con lui: “Era un prete che non aveva niente del prete. (…) Parlava di Gesù come di un ‘fatto’”.
    Mentre scrivo, non ho la minima idea di quale effetto abbia oggi questa frase in chi vi si imbatte per la prima volta: certo non è scontata, né la si incontra facilmente: insomma, non circola. Anche questo è un fatto. Leggendo l’intervista, ci si accorge che a Contri non sfugge la difficile collocazione della proposta di Giussani: egli “non era sulla via tradizionale della “Riforma” della Chiesa: né Riforma né Controriforma. (…) Con il suo operato Giussani si portava dunque avanti rispetto alla storia del cristianesimo, non rientrava in schemi precostituiti, ortodossi o eterodossi.” [6]

     

    Giacomo Contri: il corpo e l’ ‘inconscio’ come fatti.
    In un suo saggio dal suggestivo titolo …e Dio non creò l’inconscio, [7] Contri pone ad esergo un’eccellente frase che Aristotele riprende da Agatone: “Sol questo pure a Dio non è concesso, ciò ch’è già fatto far che non sia fatto” (Etica a Nicomaco, VI,2). Lo stesso Contri la commenta così:
    “Ciò che è già fatto è il corpo, la (prima) Città, il pensiero. Uniamo queste tre parole nell’unico concetto di aldilà. In questo articolo si parla dell’inconscio come di un fatto, per il fatto che è l’individuo a farlo. Si potrebbe obiettare che si tratti di uno di quei fatti che possono essere disfatti, come la casa costruita sulla sabbia. Possibile che un fatto come quel costrutto di pensiero che è stato chiamato a suo tempo «inconscio», ma che è la memoria di aver attivamente elaborato qualcosa, non possa essere disfatto? Come si può attribuire a un risultato di pensiero l’assurdità di ritenere che esso sia certamente solido come la casa costruita sulla roccia? Ai nostri pensieri merita di essere applicato il detto evangelico: «Tutti i vostri capelli sono contati».” [8]
    Ora possiamo intendere come la questione rilevata da Freud (1914 e 1938) e quella denunciata da Giussani in un contesto affatto diverso (“un’insidiosa slealtà culturale…”) siano la medesima questione. In entrambi i casi è chiamato in causa il pensiero del singolo, cioè una realtà scomoda per l’organizzazione della Cultura di ogni tempo. C’è chi se ne è accorto. Non tutti.
    Contri racconta a Gnoli di avere avuto vita difficile nel movimento psicoanalitico. Un punto non sfiorato dall’intervista è l’accusa che proveniva da esponenti del movimento psicoanalitico di allora, e che riguardava proprio la sua prossimità con Giussani. Era un’accusa di copertura, mossa da un ‘fronte interno’ alla psicoanalisi, italiana e francese, che non sopportava uno psicoanalista pensante in proprio e allo stesso tempo freudiano in toto. Gli rimproveravano la prossimità con Giussani per coglierlo in fallo: esattamente come avevano fatto i farisei con Gesù quando lo interrogavano sul sabato. [9]
    Peraltro, Contri non ha mai rinnegato il suo orientamento cattolico, e in quel clima bellicoso (1978) scriveva: “(…) radicatomi nel razionalismo teologico, cioè nella più lunga signoria storica della ragione, il monopolio laico-borghese dell’ateismo non solo non ha avuto la minima presa su di me, ma mi è sempre parso ridicolo, spregevole e filisteo, sul che il mio giudizio di psicoanalista non ha fatto che rinforzarsi.” [10]

    Che cosa possiamo intendere per ‘fatto’? [11]
    Atteniamoci ad una definizione ispirata al buon senso: un fatto è un evento, circostanza o accadimento della natura, ma anche un’azione compiuta in qualsiasi campo dell’attività umana: piove, l’aereo decolla in ritardo, una persona mi sorride o invece mi chiude il telefono in faccia, il capufficio elogia o stigmatizza il mio operato. Tutto registrato dai sensi e processato dal mio pensiero. Fin qui, la serie è disomogenea.
    Occorre il diritto per distinguere tra specie diverse di fatti, nonché tra fatti e atti. Non posso diffondermi ora, ma annoto solamente che l’esplorazione del punto di contatto, diciamo così, tra la dottrina psicoanalitica (Freud) e la scienza del diritto (Kelsen) è ciò che ha consentito a Contri di formulare l’idea che la vita psichica è sempre vita giuridica, dunque imputabile. È un’idea incomprensibile ai più, me ne rendo conto, ma potabile e digeribile per chi, avendo conosciuto la cura del divano, abbia avuto modo di apprezzarne i risultati.
    Fatto è ogni accadimento naturale o atto umano che abbia avuto conseguenze nella vita di un individuo o addirittura della collettività. Non esistono ‘fatterelli’, neppure nella vita quotidiana intessuta com’è di rapporti, abitudini, appuntamenti, successi o insuccessi, etc.
    La stima intellettuale per la categoria del fatto promuove in chiunque (credenti e non) un sovvertimento generale della mentalità, un eccitamento del pensiero in quanto tale: finalmente liberi di farci venire delle buone idee!

    Con queste mie note non ho inteso sant(on)izzare Freud, né ‘psicanalizzare’ Giussani. Ho invece preso sul serio una questione in sé semplice, quella della capacità stessa di osservare i fatti, ad ogni livello. Se non suonasse rétro, sarebbe il caso di dire: ce n’est qu’un début, è solo un inizio.

     


    * Articolo pubblicato il 18 agosto 2017 nella rubrica Father and Son del sito www.culturacattolica.it

    [1]  Così Contri chiamò Giussani in uno scritto di molti anni fa, che ora non ritrovo. L’intervista è reperibile online: http://societaamicidelpensiero.it/wp-content/uploads/170716REP_GBC3.pdf. Essa è stata ripresa da Il Sussidiario, 27 luglio 2017: http://www.ilsussidiario.net/News/Cronaca/2017/7/27/DON-LUIGI-GIUSSANI-Lo-psicanalista-Contri-per-lui-Gesu-era-un-fatto-fu-un-fulmine-a-ciel-sereno-/775760/

    [2] Cfr. Freud speaks to the BBC, http://societaamicidelpensiero.it/wp content/uploads/Testo_intervista_BBC_Freud.pdf, editor M. G. Pediconi. Nel brano che ho riportato in questa pagina, come in tutti quelli successivi, i corsivi sono miei.

    [3] Questo breve brano fu scelto da Contri come apertura delle prime pubblicazioni di Sic (giugno 1975), l’iniziativa editoriale cui aveva dato l’abbrivio in quegli anni, e dei libri di quella prima collana (tra cui La tolleranza del dolore e Lacan in Italia). Sic significa ‘è così’.

    [4] L. Giussani, All’origine della pretesa cristiana, Jaca Book, 1988, pag. 56 e pag. 47.

    [5] G.B. Contri, Luigi Giussani e il profitto di Cristo, pro manuscripto, 2005, pag. 9. http://societaamicidelpensiero.it/wp-content/uploads/050510BB_GBC3.pdf

    [6] G.B. Contri, … E Dio non creò l’inconscio, in: La questione laica, Sic Edizioni, 1991, pagg. 77-105.

    [7] G.B. Contri, “Sol questo pure a Dio non è concesso…”, in: AA.VV., L’Aldilà. Il corpo, Sic Edizioni, 2000, pagg. 91-93.

    [8] Debbo questa osservazione, che faccio mia, ad una recente conversazione con Maria Gabriella Pediconi.

    [9] G. Contri, Lacan in Italia, Sic 1978. Subito, leggendo, pensai che bisognava saperla lunga per scrivere una frase come quella.

    [10] Per un rapido excursus quanto alla definizione del sostantivo ‘fatto’ mi sono servito del Grande Dizionario della Lingua Italiana di S. Battaglia, vol. V. Dopo una prima e più generale definizione, ne segue una seconda, coerente con la precedente e più vicina all’uso del termine nelle discipline scientifiche: Ciò che è (o può essere) oggetto dell’esperienza scientifica, nella sua funzione di guida allo studio dei fenomeni di ogni ordine e grado e alla scoperta delle leggi che li governano.

    [11] Ancor più interessante è la definizione del lemma ‘fatto’ nell’ambito del diritto, ovvero il concetto di fatto giuridico: circostanza, accadimento a cui la norma giuridica ricollega il prodursi di conseguenze giuridiche, cioè la costituzione, la modifica, o l’estinzione di diritti, doveri, rapporti, situazioni giuridiche (e il temine è usato per designare sia l’astratto modello di accadimento delineato da una norma giuridica, sia il concreto accadimento storico che corrisponde al modello legale). Fatto giuridico naturale, fatto giuridico volontario: a seconda che non dipende o che dipende dalla volontà dell’uomo (nell’ambito di questa seconda categoria si distinguono a loro volta i fatti illeciti e i fatti leciti, a seconda che sono o no vietati dal diritto, come i reati e, rispettivamente, i contratti).

     

     

     

  • Freud con Goethe

    “Quello che erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo, per possederlo” *

    Prima di archiviare l’estate appena trascorsa, propongo una nota sul tema dell’ultimo Meeting di Rimini, “Quello che erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo, per possederlo”: uno dei titoli migliori nella storia della kermesse riminese.[1] La frase (Was du ererbt von deinen Vätern hast, / Erwirb es, um es zu besitzen) è tratta dal Faust, l’opera più celebre del massimo poeta tedesco, W. J. Goethe (1749-1832), ed è nota a molti. Pochi, però, sanno che anche Freud l’ha citata, rivelandola per ciò che essa è: una questione fondamentale per la civiltà stessa. Il tema meriterebbe una trattazione ben più ampia, mentre mi limiterò a delineare appena il nocciolo dell’apporto freudiano. [2]

     

    FREUD CON GOETHE: IL DISCORSO NELLA CASA NATALE DEL POETA

    “L’onore che mi tributate, e che mi sorprende, (…) evocando la figura universale del Grande che nacque in questa casa, che trascorse in queste stanze la sua infanzia, ammonisce in un certo senso a render conto del proprio operato di fonte a lui, e pone la questione di come si sarebbe comportato lui, se il suo sguardo attento ad ogni innovazione scientifica fosse caduto anche sulla psicoanalisi.” [3]
    Sono parole di Freud in occasione del Premio Goethe, conferitogli a Francoforte nel 1930, nella casa natale del poeta: il discorso, letto dalla figlia Anna – egli, già molto malato, non poté recarvisi personalmente – ha attirato l’attenzione di diversi studiosi, anche tra coloro che non sono psicoanalisti. Ad esempio, Tomas Anz, nel saggio Una linea retta da Goethe a Freud, [4] osserva come Freud rovesciò le attese di quanti si aspettavano che egli si giustificasse per essere stato accostato a Goethe, autore che del resto conosceva a menadito, come ogni viennese o tedesco colto dell’epoca, e per il quale nutriva una enorme ammirazione. Non senza ragione, “la vicenda di Faust è stata considerata un’anticipazione della psicoanalisi”. [5] Il brano riportato è un esempio della posizione di Freud nei confronti di molti autori classici, il cui retaggio egli teneva nella massima considerazione, pur senza alcuna timidezza o ossequio pregiudiziale. Nel caso di Goethe, viene da pensare che egli sia stato influenzato anche da un’altra opera del poeta, Il divano occidentale-orientale (1819): mi riferisco all’uso del divano in quella particolarissima conversazione che è la seduta psicoanalitica.

     

    FREUD RACCOGLIE LA QUESTIONE DI GOETHE

    Fra le molte citazioni di Goethe riportate da Freud, segnalo solo quelle relative al nucleo ora in esame, un nucleo che lo stesso poeta sembra evocare da un duplice punto di vista: dalla posizione del figlio-erede, o allievo, e da quella del padre, o maestro.
    La posizione del figlio-erede è richiamata nel monologo di Faust, ed è appunto la frase posta a titolo dal Meeting: “Quel che hai ereditato dai tuoi padri / riguadagnatelo, per possederlo.”
    La posizione del padre o del maestro è invece messa in bocca a Mefistofele, ed è complementare alla precedente: “Addentrarsi in indagini scientifiche non serve: / ognuno impara solamente quel che può.” E ancora: “Tanto quel che sai di meglio / non puoi dirlo ai tuoi alunni”. [6]
    Il gap generazionale non è dunque un fenomeno del Novecento o degli anni della contestazione. Allo stesso tempo, è interessante notare che “Faust e Mefistofele si dividono i ruoli ma agiscono in vista del medesimo scopo.” [7] Viene da pensare che Goethe abbia rielaborato in questo modo il rapporto non facile che ebbe col proprio padre, uomo colto e benestante, il quale si dedicò a lungo alla formazione del figlio, avviandolo a quella carriera di avvocato che invece il giovane decise ben presto di abbandonare.
    Questa tensione, insita in ogni passaggio generazionale, è proprio ciò che destò l’interesse di Freud, costantemente attento ad individuare tutto ciò che compone il ‘complesso paterno’.
    Occorre però sbarazzare il campo da un equivoco, suggerito dalla presenza dell’albero stilizzato nella locandina del Meeting. Con le sue linee e i campi geometrici che ricordano Piet Mondrian, l’immagine non rende ragione alla questione goethiana: infatti nell’ereditare non vi sono radici o frutti, bensì atti prettamente giuridici, cioè umani.

     

    LA MEDESIMA QUESTIONE SECONDO FREUD

    Nelle ultime pagine di Totem e tabù (1912-13) troviamo un esame molto attento di ciò che consente il progresso nella civiltà: “Se i processi psichici di ogni generazione non si prolungassero nella generazione successiva, ogni generazione dovrebbe acquisire ex novo il proprio atteggiamento verso l’esistenza, e non vi sarebbe in questo campo nessun progresso e in sostanza nessuna evoluzione. (…)  E di quali mezzi e vie si serve una generazione per trasferire alla successiva le proprie condizioni psichiche? [quesito perfetto, ndr] Non sarò io ad affermare che questi problemi siano stati sufficientemente chiariti, o che la comunicazione diretta e la tradizione, alle quali si pensa come prima cosa, siano sufficienti alla bisogna. (…) il compito sembra assolto in parte con l’ereditarietà di alcune disposizioni psichiche, che richiedono tuttavia una certa spinta individuale per ridestarsi e diventare operanti. Forse è questo il senso delle parole del poeta: “Ciò che hai ereditato dai padri / riconquistalo, se voi possederlo davvero”.
    Freud non si ferma qui, ma fa un passo ulteriore: “Il problema apparirebbe ancora più difficile se dovessimo ammettere che esistono moti psichici tali da poter essere repressi così completamente che di essi non resta traccia alcuna. Ma moti del genere non esistono. Anche la repressione più violenta è costretta a lasciare spazio a moti sostitutivi deformati e alle reazioni che ne conseguono. Ma se le cose stanno così, possiamo formulare l’ipotesi che nessuna generazione sia in grado di nascondere alla generazione successiva processi psichici di una certa importanza. La psicoanalisi ci ha infatti insegnato che ogni uomo possiede nella sua attività psichica inconscia un apparato che gli consente di interpretare le reazioni di altri uomini, ossia di far recedere le deformazioni che l’altro ha imposto all’espressione dei propri impulsi emotivi. Su questa stessa strada (…) può essere riuscito a generazioni successive di fare propria l’eredità emotiva delle generazioni precedenti.” [8]  [il corsivo nel testo è mio, ndr]
    Apprendiamo così che per Freud un pensiero non può mai essere rigettato fino a scomparire del tutto e a far sì che non lasci traccia di sé. Pur se deformato, esso trapela fino a divenire pubblico, cosicché le generazioni successive possono accorgersi delle deformazioni operate da quelle precedenti e ricostruire quanto era stato rimosso. Non è il caso di drammatizzare, come invece fa l’isteria: anche i padri possono venire ‘sgamati’, e il modo più mite per farlo è ricorrere ad un’analisi. Se mi è consentita un’altra espressione gergale, direi che Freud invita ciascuno a ‘darsi una mossa’. Insomma, figli non si nasce, ma si diventa.

     

    IL ‘PROFITTO TEORICO’, O LA PRIMA VOLTA DELLE NUOVE GENERAZIONI

    Freud era consapevole di essersi proposto un compito che esulava dai limiti della formazione ricevuta anzitutto dal proprio padre. Inoltre, la riluttanza e l’ostilità con cui le sue prime scoperte furono recepite dall’ambiente medico viennese lo convinsero ben presto della novità e della portata di tali scoperte.
    Quando scrisse che “il Super-io è l’erede del complesso edipico”, sentì il bisogno di aggiungere che esso “si insedia solo in seguito alla liquidazione di quest’ultimo”. Ora: il complesso edipico designa il pensiero ben formato del bambino allorché la sua ricerca del soddisfacimento incontra la differenza tra i sessi e quella tra le generazioni. Dunque il Super-io (la coscienza morale) non è tanto l’erede di quel primo pensiero, quanto piuttosto l’usurpatore. [9] Passato e presente non si compongono necessariamente in una sintesi, ma disegnano i confini in cui solo il lavoro di pensiero dell’individuo può venire a capo del conflitto, talvolta con successo, talaltra con discrepanze e insuccessi. Il futuro sarà l’esito di questa ricapitolazione individuale, e dipenderà da quello che sarà stato il lavoro costituente di ognuno.
    L’apporto dei genitori e degli educatori può essere certo rilevante, ma non è affatto garantito che si riveli benefico in ogni caso: spesso, anzi, gli adulti mostrano di non essere all’altezza di una legge compiuta dei propri moti, finendo per deludere e confondere il bambino.
    Nel caso della nevrosi, questi riesce, benché a fatica, ad individuare altri sportelli grazie ai quali potrà riorientare i propri moti. Freud parla addirittura di un ‘profitto teorico’: l’aggettivo teorico in questo caso è tutto da scoprire. Infatti ha a che fare con il mangiare, correre, disegnare e mille altre azioni che il bambino eredita e ripete in altrettante ‘prime volte’ rispetto alle generazioni che lo hanno preceduto. [10] Solo così egli può riconoscere e consolidare le proprie competenze e abilità, ben oltre ogni modellizzazione o misurazione (Q.I., scale di intelligenza e test non servono o sono addirittura dannosi).

    Faust o non Faust, ciascuno farà bene a non lasciarsi arrestare o inibire da alcun ipse dixit, e a procedere a ricapitolare quanto gli è stato insegnato, o che ha letto e ascoltato. Ereditare comporta seguire i propri eccitamenti, come pure seguire chi li ha destati o ri-destati, insieme alla spinta ad emulare i padri e i maestri. Il monito di Goethe rilanciato dal Meeting resta di cruciale importanza.
    Il fatto è che Freud a Rimini… non c’era: ce l’ho portato io adesso.

     


    * Articolo pubblicato il 6 ottobre 2017 nella rubrica Father and Son del sito www.culturacattolica.it e l’11 ottobre 2017 sul sito www.societaamicidelpensiero.it.

    [1]  Questa traduzione, adottata dai promotori del Meeting, si discosta leggermente da quella di A. Casalegno (Faust Urfaust, Garzanti 1990, pagg. 52-53): “Quello che hai ereditato dai tuoi padri, guadàgnatelo, per possederlo”, come pure da quella che troviamo nelle Opere di Sigmund Freud (Bollati Boringhieri, vol. VII, pag. 161): “Ciò che hai ereditato dai padri, riconquistalo, se vuoi possederlo davvero.” Infatti il tempo presente (erediti) non traduce letteralmente, ma ha il vantaggio di mostrare come l’ereditare non sia qualcosa di concluso una volta per sempre, ma continui a rinnovarsi nel presente. Per quanto riguarda “erwirb es”, l’aggiunta del prefisso (ri-guadagnalo, ri-conquistalo) forse non convince pienamente, poiché il verbo tedesco non indica una ripetizione in senso stretto; tuttavia è corretta se quel ri- significa “ogni volta, tutte le volte”. (Ringrazio Maria Guidarelli e Peter Aufkleiter per i loro suggerimenti a questo riguardo).

    [2] Il Meeting 2017 ha offerto più di un’occasione di riflessione intorno all’eredità: ad esempio, la sorprendente mostra curata da Giuseppe Frangi Il passaggio di Enea, che presenta l’artista contemporaneo come un nuovo Enea; l’originalissima e suggestiva rappresentazione teatrale Padre e figlio, opera del drammaturgo Fabrizio Sinisi; l’avvincente lezione del prof. J.H.H. Weiler, Rubando l’eredità dei padri. Giacobbe ed Esaù. Su questi importanti contributi mi propongo di ritornare più avanti.

    [3] Cfr. S. Freud, Discorso nella casa natale di Goethe a Francoforte, OSF, vol. XI, pag. 7.

    [4] T. Anz, Eine gerade Linie von Goethe zu Freud. Zum Streit um die Verleihung des Frankfurter Goethe-Preises im Jahre 1930, http://literaturkritik.de/id/9478

    [5] Cfr. A. Casalegno, Note, in: Faust Urfaust, op. cit., pag. 1205.

    [6] Cfr. S. Freud, Autobiografia (1924), OSF, vol. X, pag.77, e Discorso nella casa natale di Goethe a Francoforte, OSF, vol. XI, pag. 12.

    [7] Cfr. G. Mattenklott, Introduzione, in: Faust Urfaust, op. cit.

    [8] Cfr. S. Freud, Totem e tabù (1912-13), OSF, vol. VII, pagg. 160-1.

    [9] Cfr. G.B. Contri, Lexikon psicoanalitico e Enciclopedia, Sic Edizioni, 1987, pag. 18.

    [10] Cfr. S. Freud, Compendio di psicoanalisi, parte terza, Il profitto teorico, OSF, vol. XI, pag. 634.

     

  • Una donna sprint tra padre e figlio

    Una donna sprint tra padre e figlio

    Ci sono film e libri che con il passare del tempo non invecchiano, a differenza di altri che a distanza di decenni, o solo di anni, non suscitano affatto l’interesse o l’entusiasmo della prima volta. Come mai? Per ora lascio aperto l’interrogativo: ognuno può provare a rispondere in proprio.

    La gatta sul tetto che scotta (1958)[1] è appunto un film ‘sempreverde’, ad alta tensione morale e confezionato in modo elegante e lieve. Recitato in maniera perfetta da tutti gli interpreti, tra cui spiccano Elizabeth Taylor e Paul Newman,[2] ottenne un grande successo e sei nomination all’Oscar, pur non vincendone neppure uno. Il film ha quasi sessant’anni, ma non li dimostra.

    ‘La gatta sul tetto che scotta’: un cenno alla trama

    Mississippi, anni Cinquanta: «Un autoritario barone terriero malato di cancro festeggia il 65° compleanno insoddisfatto dei due figli, uno dei quali è un avido bruto e l’altro un ex-atleta nevrotico che rifiuta di dormire con la bella moglie» (Morandini). Il regista e sceneggiatore Richard Brooks, figlio di immigrati russi di origine ebraica, adattò per il cinema l’omonima pièce teatrale di Tennessee Williams,[3] che in quegli anni era in cartellone al Morosco Theatre di New York. Brooks ne fece un ottimo dramma familiare, imperniato sullo «scontro generazionale e catarsi collettiva» (Mereghetti). Memorabili le scene in cui la giovane moglie cerca di sedurre il marito renitente.[4] In un certo senso la protagonista dell’intera storia è proprio lei, Maggie “la gatta”, sul cui soprannome tornerò tra poco. Bellissima lei, bellissimo lui, eppure le cose tra loro non funzionano, it doesn’t work out. La coppia sembra destinata a non avere alcun futuro, né figli.[5] Il marito (Brick) non fa che attaccarsi alla bottiglia, logorato dal senso di colpa per la perdita dell’amico Skipper, suicidatosi anni prima in circostanze mai chiarite. Maggie è arrabbiatissima (sia pure in modi assai civili, se paragonati agli stili narrativi ben più aggressivi di oggi): la giovane proviene da una famiglia povera, e non intende affatto mandare a rotoli matrimonio e posizione sociale, persuasa che il marito possa ancora riprendersi e guidare la ricchissima azienda paterna. Il fratello e la cognata di Brick non fanno che aspettare la morte del padre (Bid Daddy) mentre mentono a tutto spiano sulle proprie intenzioni e incolpano Maggie di non aver dato alla luce neanche un figlio. Attraverso i fantasmi del passato, lo scontro tra Brick e suo padre troverà infine una soluzione proprio grazie all’intraprendenza di Maggie, a vantaggio di molti, se non di tutti.
    A onor del vero, il film non fa capire chiaramente la vera ragione del sospeso tra padre e figlio, perché Brooks dovette stemperare ogni riferimento all’omosessualità del personaggio del giovane, in obbedienza al codice di autoregolamentazione in vigore in quegli anni nel cinema statunitense.[6] Il passato di Brick viene rappresentato in modo tale da non svelare granché. Afferriamo però il nocciolo del conflitto: il figlio sente di avere deluso le aspettative del padre, che avrebbe voluto farne una star del football.
    Va detto che il film fu realizzato superando difficoltà diverse e crescenti: all’inizio Newman, allora molto meno celebre della Taylor, si lamentò ripetutamente con il regista per la recitazione della diva, a suo giudizio troppo passiva e scostante durante le prove. Ma il 22 marzo 1958 il marito della Taylor, allora ventiseienne e già al terzo matrimonio, morì improvvisamente precipitando con il suo aereo privato (il Lucky Liz), sul quale avrebbe dovuto trovarsi anche la moglie. L’attrice, rimasta vedova con tre figli piccoli tra cui la terzogenita di appena sette mesi, dapprima rifiutò di proseguire le riprese del film, trattando il regista a male parole, ma poi tornò sui suoi passi spontaneamente. Brooks dichiarò: «Non è mai mancata un giorno e non è mai arrivata in ritardo»: la sua forza d’animo sorprese tutti e contribuì a creare un ottimo clima sul set.[7]

    Che c’entra la ‘gatta’?

    Il titolo suona un po’ frivolo e non rende giustizia alla vicenda, che invece non lo è affatto. Nella sceneggiatura di Brooks, Maggie si adopera in tutti i modi per riconquistare lo scontroso marito e allo stesso tempo non nasconde il suo trasporto per il suocero, ancor prima che a costui venga diagnosticato un cancro incurabile. Il ‘tetto che scotta’ allude al clima di menzogna imputabile a tutti i componenti della famiglia: dunque la sua non è affatto una condotta isterica o irragionevole. Persino nel finale, allorché dichiara di essere incinta mentre non lo è ancora, si mostra intelligente e coraggiosa. Mente anch’essa? Niente affatto. Piuttosto getta le basi per ricostruire l’intesa con Brick. Maggie bluffa, non bara: tanto di cappello! Nei decenni successivi il cinema, nel rappresentare il rapporto tra i sessi, ci ha quasi assuefatti ad ogni specie di impasse, come se il fallimento sia l’unico destino cui può andare incontro la vita sessuale.
    Anche il rapporto tra Maggie e Big Daddy è degno di nota; a me ha ricordato la stima e l’affetto che legavano Sigmund Freud alla moglie di suo figlio Ernst, Lucie Brasch. Freud «presto sviluppò una cordiale simpatia per la nuova nuora, la quale lo contraccambiava al punto da confessare al marito: “Sono contenta di non averlo conosciuto prima di te. Mi sarei sempre tormentata a chiedermi se è a causa sua che io amo te”.»[8] Qualcosa del genere è di buon auspicio per ogni matrimonio: Freud mette in guardia gli uomini dallo sposare donne in grave conflitto con il proprio padre.
    Viene da pensare che Tennessee Williams abbia creato il personaggio di Maggie via identificazione: la “gatta” è lui stesso, e la protesta della giovane donna rappresenta in un certo senso la reazione del drammaturgo al mito americano del macho. Williams è arrivato fino a qui.

    La soluzione vantaggiosa…

    … è economica ed è incentrata sul profitto.[9] Ma occorre qualcuno che lo sappia produrre: non bastano gli acri di terra o le ingenti somme di denaro accumulate dal patriarca. La lamentela del fratello di Brick («ho fatto tutto quello che papà ha voluto… non è giusto!») ricorda la parabola evangelica dei talenti: chi non ci mette niente di suo non è davvero affidabile, né è un erede. I due figli incarnano due generi di obbedienza opposti.
    Mi servo ancora del vangelo: «Un uomo aveva due figli; rivoltosi al primo disse: Figlio, va’ oggi a lavorare nella vigna.  Ed egli rispose: Sì, signore; ma non andò.  Rivoltosi al secondo, gli disse lo stesso. Ed egli rispose: Non ne ho voglia; ma poi, pentitosi, ci andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?”. Dicono: “L’ultimo”.» (Matteo, 21; 28-32)
    La statura di Big Daddy emerge verso la fine del film, nell’incontro-scontro con Brick nella grande cantina zeppa di oggetti obsoleti, che sembrano ricordargli l’ineluttabilità della morte. Nella confessione circa il rapporto con il proprio padre (“amavo quel vagabondo”), Big Daddy si sorprende capace di essere ancora figlio. Da quel momento, egli torna ad essere interessante per Brick. La scena, che fu introdotta da Brooks (nel dramma di Williams non ve n’è traccia), è il momento più toccante del film, tutto intessuto intorno ad un doppio intreccio: quello del rapporto uomo-donna vòlto al profitto, e quello in cui padre e figlio si fronteggiano nella ricerca appassionata di una soluzione che valga per entrambi.

    Nel prossimo film (Shine, 1996, regia di Scott Hicks) vedremo come la psicopatologia, nella fattispecie la psicosi, abbia invece una forte connotazione antieconomica, cosicché il titolo (Shine, splendore, fama) suona come uno sberleffo.

     

     


    [1] Cat on a Hot Tin Roof, USA 1958, col., 108’. Regia di Richard Brooks. Con: Elizabeth Taylor, Paul Newman, Burl Ives, Judith Anderson. Ho proposto questo film il 23 febbraio scorso al Museo Interattivo del Cinema (MIC) all’interno del Cine-seminario con la psicoanalisi Onora il figlio. L’undicesimo comandamento. Alla proiezione è seguito un breve commento a più voci, cui ha partecipato il prof. Marco Cucco, docente di economia del cinema all’Università della Svizzera Italiana e professore a contratto presso l’Università Cattolica di Milano.
    Questo articolo è in uscita in questi giorni sul sito www.societaamicidelpensiero.it, mentre una prima stesura è apparsa il 14 marzo scorso nella rubrica Father&Son del sito www.culturacattolica.it.

    [2]  A Paul Newman ho già dedicato altri due articoli: Intraprendenti: padre e figlio nel film ‘La lunga estate calda’ (1958) e L’omaggio di un freudiano a Paul Newman (redatto a pochi giorni dalla morte dell’attore).

    [3] Tennessee Williams (1911-1983) fu un autore molto prolifico; tra i suoi drammi di maggiore successo: Lo zoo di vetro (1944), Un tram che si chiama desiderio (1947), La gatta sul tetto che scotta (1955) e Improvvisamente l’estate scorsa (1958). In molte sue opere è presente un richiamo, ironico e/o provocatorio, all’omosessualità. L’adattamento cinematografico di Cat on a Hot Tin Roof non lo convinse affatto.

    [4] La candida e raffinata sottoveste indossata dalla Taylor per buona parte del film contribuì – non senza ragione -al lancio di questo capo di lingerie che si andava affermando in quegli anni. Lo stesso accadde per la virile canottiera indossata da Brando in Un tram che si chiama desiderio (1951) e, ancor prima, per l’impermeabile di Bogart in Casablanca (1942). Il nesso tra cinema, costume e industria non è da dimostrare: è meglio non esercitare troppi distinguo tra cinema commerciale e autoriale ogni volta che un messaggio o un’idea raggiungono e influenzano milioni di persone.

    [5] Una nota per i lettori più curiosi o più accorti. Che cosa pensare del rimprovero della madre di Brick alla nuora? «Insomma, qui c’è qualcosa che non va! Tu non hai figli, mio figlio beve! Quando un matrimonio affonda, cara mia, lo scoglio è il letto!» (When a marriage goes on the rocks… the rocks are there, right there!). C’è qualcosa di irrisolto in questa denuncia: per come essa è formulata, non è chiaro se i sessi soffrano per un’impasse che ha la propria origine altrove, o se invece ne siano la causa. Cambia tutto: il primo caso ricorda il rifiuto della posizione femminile, o ricevente, che Freud indica come ultimo ostacolo alla guarigione (la “roccia basilare”, in Analisi terminabile e interminabile (1937); nel secondo caso avremmo il solito stereotipo, ‘la sessualità’.

    [6] «Il Production Code, o codice Hays, è una forma di autocensura che l’industria cinematografica statunitense adottò fin dagli anni ’30, a seguito di una serie di scandali legati alla vita privata di attori e registi dell’epoca. In forza di esso, tutti i film, per arrivare nelle sale, dovevano rispettare una serie di regole circa le scene di nudo o di rapina, la religione, la bandiera nazionale, etc. Il codice rimase in vigore sino al 1967, anche se col passare degli anni le sue maglie divennero più morbide. Dal 1967 venne sostituito da un rating system: alcuni film furono vietati ai minori di 14 o di 18 anni. In tal modo non si censurava più il contenuto, ma si regolamentava chi poteva avere accesso ad una determinata tipologia di contenuti.» (M. Cucco, dai miei appunti).

    [7] Cfr.: S. Levy, Paul Newman. Una vita. Trad. di F. Pedroni, Baldini Castoldi Dalai, 2010, pag. 133.

    [8] S. Freud, Intanto riminiamo uniti. Lettere ai figli, Archinto 2013, pag. 145. Inoltre, poco dopo la scomparsa della figlia Sophie (1920), Freud si rivolse alla futura nuora con queste parole: «Mia cara figlia, (…) come tu hai perso un padre amato, così io ho perso da poco una figlia e da allora sono così ferito, che non oso credere nella buona sorte. Ma pare che la buona sorte sia ancora possibile, e che essa sia tu.» (pag. 161). Per un approfondimento circa il rapporto tra Freud e i suoi figli, rinvio a: G.M. Genga e M.G. Pediconi, Ubi bene ibi patres. Freud e i suoi figli, Gli Argonauti n. 150, Carocci, settembre 2016.

    [9] Circa la rilevanza del profitto nel rapporto padre-figlio, G.B. Contri ne ha parlato e scritto più volte, come ho indicato nel mio articolo recente Nel nome del Padre, del Figlio e del… Profitto.

  • Quel tallone d’Achille dei genitori: il figlio ideale

    L’occasione: un cine-seminario con la psicoanalisi
    In questi mesi il Museo Interattivo del Cinema (MIC) ospita il Cine-seminario con la psicoanalisi Onora il figlio. L’undicesimo comandamento.[1] Il Leitmotiv è il medesimo di questa rubrica, ovvero il rapporto tra padri e figli. Il ciclo ha preso il via il 26 gennaio con Mio figlio Professore (1946).[2] La proiezione è stata preceduta da una breve introduzione di Luisa Comencini[3] e da una presentazione di Paolo Mereghetti.[4]

    Uno sguardo alla trama di “mio figlio professore” (1946)
    Orazio Belli (Aldo Fabrizi) è il bidello del liceo classico Visconti, il più antico e prestigioso di Roma. Rimasto vedovo con il figlio ancora in fasce, gli dedica tutta la propria vita, spingendolo a farsi una posizione: «per fargli avere la cattedra di latino nel suo liceo, è disposto a far carte false, ma l’intransigenza del figlio non gli permetterà di godere di questo piccolo trionfo.» (Mereghetti, 2014) Ripercorrendo vent’anni di storia italiana a partire dall’ascesa al potere del fascismo, il film racconta un certo tipo di ambizione paterna, votata all’insuccesso perché appesantita dall’ingenua ricerca del riscatto sociale.

    Il narcisismo dei genitori: il vero tallone di Achille
    La pagina che Freud scrisse a questo riguardo nel 1914 ci permette di comprendere le ragioni di tale insuccesso: «Se consideriamo l’atteggiamento dei genitori particolarmente teneri verso i loro figli, dobbiamo riconoscere che tale atteggiamento è la reviviscenza e la riproduzione del proprio narcisismo al quale i genitori stessi hanno da tempo rinunciato. (…) Si instaura in tal modo una coazione ad attribuire al bambino ogni sorta di perfezioni di cui non esiste indizio alcuno se lo si osserva attentamente, nonché a dimenticare e coprire ogni sua manchevolezza. (…) La sorte del bambino dev’essere migliore di quella dei suoi genitori (…) egli deve davvero ridiventare il centro e il nocciolo del creato, quel “His Majesty the Baby”, che i genitori si sentivano un tempo. Il bambino deve appagare i sogni e i desideri irrealizzati dei suoi genitori: (…) si ottiene sicurezza rifugiandosi nel bambino. L’amore parentale, così commovente e in fondo così infantile, non è altro che il narcisismo dei genitori tornato a nuova vita».[5] Cose vetuste e ormai sorpassate? Domanda retorica.

    Quando il padre è “faber sfortunae suae”
    A mio avviso, questo film mostra molto bene il narcisismo del padre-bidello: “non ci sono né facili piagnistei né inutili sentimentalismi” (Mereghetti, 2016): Castellani non ha affatto ceduto al gusto del patetico nel giudicare la condotta del protagonista.[6]

    Un solo esempio: allorché Orazio si scopre incapace di trovare una soluzione all’inaspettato conflitto con il figlio e decide di uscire di scena, si lascia andare ad una specie di auto-rimprovero: «Non ti scorda’ che tu sei bidello e lui professore…Così è fatto il mondo. E’ fatto male ma è così!» Ebbene, ha torto, anche se la sua figura impacciata, soccorrevole e paternalistica, aveva potuto destare fino a quel momento una certa compassione. Ma egli resta faber sfortunae suae (per dirla in latino maccheronico). I suoi modi dimessi lo spingono a… dimettersi: sentiva di avere osato troppo. Si pensi alla canzone Papaveri e papere di qualche anno dopo.[7]
    Per il bidello Orazio l’ascesa sociale è un Oggetto idealizzato, un miraggio. Né può essere diversamente: la sua “ambizione” resta tutta interna alla cornice della Cultura classica, quella con la ‘C’ maiuscola.
    Non a caso il film è ambientato, nonché girato, nel più prestigioso liceo classico romano, quell’Ennio Quirino Visconti che per decenni ha formato la crème intellettuale e politica italiana.[8] Una scuola di eccellenza, come si direbbe oggi. In questa cornice tanto austera, Castellani sceglie di ritrarre la figura più “bassa”, il bidello: un mestiere in certo senso servile ed esposto al dileggio, forse perché, a differenza del contadino o dell’operaio, non è un lavoro produttivo.
    Vero che per i bambini delle elementari di ogni ceto, la figura del bidello non era affatto minore rispetto a quella del maestro o della maestra: prima della riforma del 1962, o fino al ’68, il bidello era una specie di zio, uno sportello preziosissimo, che provvedeva ai mille imprevisti e bisogni dei piccoli scolari. Ma qui non vi è alcuna traccia di tutto questo: Orazio senior è una figura claustrofobica, come scrive Pier Maria Bocchi: è dedito solo al figlio![9] E allo stesso tempo è un personaggio in certo senso all’avanguardia, perché ricorda da vicino il “mammo” dei nostri giorni.

    Certo, si ride alla gag in cui Orazio farfuglia semi-parole incomprensibili quando vuole citare titoli e argomenti dei dotti articoli pubblicati dal figlio divenuto professore. Eppure egli non mostra alcuna curiosità per quella cultura: nessuna lettura, nessun movimento. Proprio come accade al protagonista di Umberto D. di De Sica[10] che, mentre vende per un tozzo di pane i suoi libri ad una bancarella, confessa di non averli mai aperti! Inescusabile.
    ‘Commedia dolceamara’, è stato scritto. Ma attenzione all’aggettivo composto: l’ossimoro nasconde spesso la perversione. Può qualcosa essere allo stesso tempo dolce e amaro?
    Nel finale “di intensità quasi insopportabile” (Mereghetti 2016), il figlio non immagina neppure che il padre si sia autoesiliato. Ne è testimone invece la giovane Pinuccia, che dà l’addio al vecchio bidello con un bacio affettuoso. Spetterà a lei dare la notizia a Orazio jr. con cui sta per fidanzarsi. La nuova coppia avrà maggior fortuna? Melodramma o illusione? O un karma in versione occidentale? Resta che padre e figlio, in questa storia, non hanno in comune alcuna ‘azienda’, né alcun mezzo di produzione.

    Nel prossimo film, La gatta sul tetto che scotta (Brooks, 1958), tutta la vicenda è imperniata sulla capacità del figlio di raccogliere in modo personale l’eredità paterna. Una capacità che deve anzitutto, come vedremo, alla moglie, una donna eccezionale. Appuntamento al MIC il 23 febbraio prossimo.

     


    [1] L’espressione “onora il figlio”, coniata da G.B. Contri, ricapitola il decalogo più noto della storia dell’umanità. Chi non onora un figlio (figlia compresa) lo ammala, mostrando così di essere egli stesso malato. Quattro film molto diversi tra loro e imperniati su un unico tema: il passaggio generazionale. Sarà privilegiato l’apporto di Freud, l’unico pensatore moderno che abbia indagato a 360 gradi il tema del padre, partendo dal rendere nuovamente pensabile che cosa significhi essere figlio e figlia. Contri ha raccolto e perfezionato tale ricerca: esiste passaggio tra padre e figlio laddove il rapporto volge al profitto. È questo il test dell’amore (link alla pagina del sito MIC Onora il figlio. L’undicesimo comandamento.)

    [2] Mio figlio Professore: Italia 1946, b/n, 100’, R. Castellani. Con: Aldo Fabrizi, Giorgio De Lullo, Mario Pisu, Pinuccia Nava, Mario Soldati, Ennio Flaiano. Per un approfondimento sull’intera opera del regista, rinvio al recente Il cinema di Renato Castellani, a cura di L. Malavasi et Al., Carocci, 2015. Non so se il regista o qualcuno degli sceneggiatori abbiano avuto contatti con lo scrittore Ugo Ojetti (1871-1946): questi aveva pubblicato nel 1922 un romanzo dal titolo Mio figlio ferroviere, alla cui trama il film di Castellani sembra fare da contrappunto.

    [3] Luisa Comencini, Segretario Generale della Cineteca Italiana, che quest’anno festeggia i 70 anni di attività con un nugolo di interessanti iniziative (http://cineteca70.cinetecamilano.it/), ha ricordato il ribaltamento operato dal punto di vista che mette l’accento sull’onorare il figlio: “è come se, da un ipotetico undicesimo comandamento, si chiedesse al cinema di dirci qualcosa sulle modalità in cui il padre – non più il figlio – debba rendere onore all’altro.” (dai miei appunti).

    [4] Paolo Mereghetti, noto giornalista e critico del Corriere della Sera, autore dell’autorevole Dizionario dei Film che porta il suo nome (Baldini&Castoldi, 11^ ed., 2016) ha sottolineato come le qualità di questo film non siano state apprezzate a lungo, come invece avrebbero meritato, a causa del dibattito ideologico che divideva la critica in opposti schieramenti sociali e politici. Solo quando tale dibattito ha assunto toni più sfumati, anche questo genere di “cinema non monocorde” ha potuto trovare degli estimatori (dai miei appunti).

    [5] S. Freud, Introduzione al narcisismo, 1914, OSF. Vol. VII, pagg. 460-461.

    [6] Una interessante espressione di Luigi Comencini: «Il pubblico vuole il patetico? Castellani gli dà il patetico, ma non ci crede, non ci crede assolutamente.» (F. Pitassio, Uomini e animali. Renato Castellani nonrealista, in: Malavasi, op.cit., pag. 26).

    [7] G.B. Contri, commentando una battuta di Altan apparsa su Repubblica (“Forse è ora che l’umanità si dimetta”), scrisse: «Forse è ora di pensare che l’umanità possa cessare di dimettersi. Freud ha cercato questo pensiero. La migliore rappresentazione che conosco del peccato dell’umanità è la dimissione, o abdicazione, di Re Lear. Tutta la psicopatologia è dimissione, autogestione dell’esautorazione, prima subita poi inferta.» (G.B. Contri, L’inno del terrorismo: “papaveri e papere”, Bed&Board, 9/09/2004). Ricordo che Papaveri e papere si classificò al secondo posto al festival di Sanremo 1952. Nella sua malcelata melanconia fu un successo straordinario: https://www.youtube.com/watch?v=1a1GYZZt8Vw

    [8] Il Visconti, fondato nel 1871 nella sede del prestigioso Collegio Romano istituito da Ignazio di Loyola per la formazione dei Gesuiti, annovera tra i suoi allievi molti nomi illustri, tra cui Pio XII, Giulio Andreotti, Giorgio Amendola, Franco Modigliani, Guido Carli e Roberto Longhi.

    [9] “Il nemico di Orazio è Orazio stesso” (P.M. Bocchi, Mio figlio professore: prima di Umberto D., in: Malavasi, op.cit. pag. 144).

    [10] Cfr. G.M. Genga, Di padre in padre. Passaggi generazionali in casa De Sica, http://www.glaucomariagenga.it/?p=156

  • Nel nome del padre del figlio e del… profitto*

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    Un’idea nuova

    In un articolo pubblicato nel novembre scorso sul suo blog Think!, Giacomo Contri torna a scrivere della «Trinità, di cui nessuno parla mai eppure il cristianesimo è tutto lì: una combine razionale e giuridica trattandosi di tre persone distinte e operativamente correlate, almeno nella versione cattolica (“procedit”) che resta incompiuta. […] Lo psicoanalista che sono, o meglio il pensante freudiano che sono, non può non osservare la seguente evidenza: tra quei tre (non due, Padre-Figlio) si produce una legislazione tale da non dare luogo al disastro legale descritto da Freud nella povera dualità Padre-Figlio, con inconsistenza paterna e parricidio filiale, sotto gli occhi impietosi delle spettatrici, non sedotte ma abbandonate.»[1]

    Mi sono detto: ecco una pietra miliare per l’inchiesta che ho iniziato qualche anno fa in questa rubrica. Siamo di fronte ad un’idea nuova, chiara e distinta come quelle che piacevano a René Descartes: il tema del rapporto padre-figlio va preso via Trinità, affinché non sia uno sfacelo (Zerstörung è la parola usata da Freud per indicare il destino del complesso edipico nella patologia).

    Un passo avanti, certo, a condizione di comprendere e assumere la definizione che Contri propone della terza persona della Trinità. Intrigante.

     

    Papa Francesco

    Appena ho letto le righe riportate sopra, il mio pensiero è andato alla breve omelia che Papa Francesco ha pronunciato nella cappella di Santa Marta nel maggio scorso: «Ma noi, nella nostra vita, abbiamo nel nostro cuore lo Spirito Santo come un ‘prigioniero di lusso’: non lasciamo che ci spinga, non lasciamo che ci muova. Fa tutto, sa tutto, sa ricordarci cosa ha detto Gesù, sa spiegarci le cose di Gesù. Soltanto – lo Spirito Santo – non sa fare una cosa: cristiani da salotto. Questo non lo sa fare! Non sa fare ‘cristiani virtuali’ ma non virtuosi. Lui fa cristiani reali, Lui prende la vita reale così com’è, con la profezia del leggere i segni dei tempi e ci porta avanti così. E’ il grande prigioniero del nostro cuore. Diciamo: “E’ la terza Persona della Trinità” e finiamo lì…».[2]

    L’omelia – poco più di due minuti stando a quel che ho trovato sul web – è stata riportata da L’Osservatore Romano e dal sito del Vaticano con un azzeccatissimo titolo redazionale: “Perfetto sconosciuto”. Certo con l’assenso del Papa il quale, non essendo nato ieri, è consapevole di questa ignoranza in casa propria.

     

    Eugenio Scalfari

    Interessante anche l’articolo “Lo Spirito Santo nella mente del laico”, con cui l’inossidabile fondatore de la Repubblica ha subito ripreso quel titolo, chiedendosi: «Chi è costui? Fa parte del nostro mondo? O soltanto di quello dei credenti? Il tema è fondamentale per gli uni ed anche per gli altri ed è lo Spirito Santo che fa parte del mistero trinitario.»[3]

    Da eccellente comunicatore qual è, Scalfari dedica la prima metà dell’articolo ad illustrare i termini della questione. Il suo è un laico bigino ad usum dei non credenti, ma anche di quei credenti divenuti “analfabeti di ritorno” in materia di dottrina cattolica.[4] Ma poi, di fatto, non risponde all’interrogativo che pure intende rilanciare (“che cosa fa lo Spirito Santo?”). E il seguito dell’articolo è assai più debole della prima parte, limitandosi a noterelle antropologiche: niente di nuovo sotto il sole.

     

    Giacomo B. Contri

    Giacomo Contri propone di intendere quel “perfetto sconosciuto” come il profitto… in persona.[5]

    Già diversi anni fa aveva accostato questo stesso tema, commentando le righe con cui l’evangelista Luca, poco prima del Nunc dimittis, presenta Simeone: «uno che non ha altro desiderio o ambizione (prosdekòmenos: in attesa) che la mobilitazione in libertà (paràklesin) del popolo privilegiato (Israel); una proprietà – quella di un tale desiderio – associata a quella dell’avere l’assistenza intellettuale del Mobilitatore per eccellenza, chiamato “Santo Spirito”. (…) Quanto al tradurre paràklesis con “consolazione” – la successiva tradizione linguistica cristiana chiamerà il Santo Spirito appunto “Paràclito” tradotto “Consolatore” -, non trovo da ridire, di consolazione abbiamo bisogno: ma non si tratta di statica e inefficace consolazione, un buffetto o magari abbraccio divino, perché parakaléin significa chiamare, far venire, eccitare, stimolare, incoraggiare, insomma mobilitare, mettere in movimento.».[6]

    Papa Francesco, nell’omelia citata, afferma: «Lo Spirito Santo è quello che muove la Chiesa, è quello che lavora nella Chiesa».

    L’idea nuova con cui ho iniziato questa pagina sta nell’intendere il rapporto tra Padre e Figlio (nessuna differenza se scrivo “tra padre e figlio”) come partnership volta al profitto.

    E profitto è sinonimo di guadagno, vantaggio, incremento, beneficio, da qualsiasi parte lo si prenda: materiale, intellettuale, affettiva, etc.

    Viene così smascherata la menzogna insita nella filosofia esistenzialistica: mi riferisco al celebre aforisma di Sartre «L’enfer, c’est les autres», l’inferno sono gli altri.

    Con Giacomo Contri faccio mia la lezione di Freud, al cui riguardo restava da esplicitare come il principio di piacere sia esso stesso principio di guadagno. «Il partner è la condizione del profitto; l’amore è la partnership per avere l’Altro come mezzo.» Fino al punto di rifiutare di «discorrere di Dio se non è una questione unica con l’esistenza del partner, e innanzitutto di quella partnership a gittata universale che è la relazione Uomo&Donna.»[7]

     

    In Father & Son provo a lavorare in questa direzione. Se con profitto, sta ai lettori giudicare.

     


    * Articolo pubblicato il 6 gennaio 2017 nella rubrica Father&Son del sito www.culturacattolica.it, a cura di E. Leonardi: www.culturacattolica.it/default.asp?id=516&id_n=39582

    [1] G.B. Contri, Think!, 19-20 novembre 2016 http://www.giacomocontri.it/BLOG/2016/2016-11/2016-11-19-BLOG_domenica_esisto_diono_papa.htm

    [4] A dire il vero, mi pare vi sia più dottrina nelle pagine di Scalfari che neanche nel Breviario del cardinale Ravasi su La Domenica del Sole 24 Ore, nelle cui righe la Trinità – se non erro – non viene mai menzionata come tale. Se io fossi il Papa, potrei pensare (sit venia verbis) di offrire quel dicastero a Scalfari (per farlo, però, dovrei prima perdonargli l’errore di avere chiamato sinottici, anziché canonici, i quattro vangeli: La Repubblica, 24 dicembre 2016).

    http://www.repubblica.it/politica/2016/12/24/news/isis_natale-154778093/ .

    [5] Al tema del profitto G.B. Contri ha dedicato molti articoli e saggi, tra i quali menziono soltanto:

    Il profitto di Freud. Una logica chiamata uomo e Luigi Giussani e il profitto di Cristo

  • Il discorso “I have a dream” di Martin Luther King: un esempio di appuntamento*

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    Nell’aprile scorso, trovandomi ad Atlanta (Georgia) per un congresso, ho avuto l’occasione di imparare qualcosa circa la figura e l’opera di Martin Luther King.[1] Ignoravo che fosse nato ad Atlanta, mentre ricordavo il suo assassinio, il 4 aprile 1968: allora frequentavo la seconda media e l’insegnante di lettere ce ne parlò in classe, come usava fare per i fatti più importanti (la guerra dei sei giorni tra Israele e i Paesi arabi, lo sbarco sulla Luna, etc.: era una buona scuola, la sua).

    Penso che oggi in Italia, tranne forse poche eccezioni, non abbiamo un’idea della vastità e drammaticità del problema dell’integrazione razziale negli USA, anche se la sua attualità ci viene riproposta dalle notizie dei fatti di sangue che si susseguono continuamente, fino a questi ultimi giorni.

    La casa natale di M.L. King, il ranger e i tre termometri

    Il M.L. King National Historic Site fu edificato con denaro delle famiglie King e Kennedy. Vi feci visita con Vaia Tsolas e Michael Civin, psicoanalisti residenti a NY, la loro figlia Ariadne di sette anni, e gli amici e colleghi italiani Gabriella Pediconi e Luca Flabbi. Eravamo pressoché gli unici bianchi in un gruppo di visitatori di colore. La nostra guida era un ranger afroamericano:[2] un omone decisamente sovrappeso che, dopo essersi presentato scherzando sul fatto che si chiamava “Bruce Lee” come il celebre attore campione di kung-fu, si mise a chiedere a ciascuno il nome, il Paese di provenienza e il motivo della visita. Rimanemmo tutti molto colpiti dalla risposta di Michael, il marito di Vaia: «Quando ero bambino, nell’Oregon, i miei genitori dovettero portarmi al pronto soccorso dell’ospedale. Là vidi tre termometri appesi al muro: sotto il primo era scritto “per la temperatura orale”; sotto il secondo “per la temperatura anale” e sotto il terzo “per i negri”. Ne chiesi la ragione ai miei, ma essi non seppero rispondermi in modo soddisfacente. Per questo sono qui.»

    Al termine della visita, mentre ci incamminavamo verso il metrò, fummo affiancati da una grossa auto nera: Bruce Lee ci invitava a salire per offrirci un passaggio. Michael sedette al suo fianco e il ranger gli disse: «Quello che hai detto circa i tre termometri, non dimenticarlo mai». E Michael: «Lo porterò sempre con me.» Anch’io, ora.

    Il discorso di M.L. King alla Marcia su Washington

    M. L. King pronunciò il suo discorso più famoso, I have a dream,[3] davanti al Lincoln Memorial di Washington il 28 agosto 1963, al termine della celebre marcia cui parteciparono circa duecentocinquantamila persone, tra cui molti bianchi e personalità di rilievo. Giustamente definito “storico”, quel discorso è stato studiato e commentato da moltissimi politologi, sociologi, filosofi e linguisti, molti dei quali segnalano il dato che riporterò tra poco.[4] Non tutti, però: è il caso dello psicologo Adam Grant, nella sua conferenza Le abitudini sorprendenti dei pensatori originali, in cui egli tesse le lodi dell’improvvisazione con queste parole:

    «Che dire di Martin Luther King, Jr.? La notte prima del più grande discorso della sua vita (…) rimase sveglio fin dopo le tre di notte per riscriverlo. Seduto in mezzo al pubblico in attesa del suo turno per salire sul palco, è ancora intento a scarabocchiare note e cancellare righe. Ma quando sale sul palco parla per undici minuti, poi mette da parte il discorso preparato per pronunciare le quattro parole che hanno cambiato il corso della storia: «Io ho un sogno». Non era nel copione. Rinviando il compito di finalizzare il discorso fino all’ultimo minuto, egli rimase aperto alla più ampia gamma di possibili idee. E siccome il testo non era stato scolpito nella pietra, ebbe la libertà di improvvisare.»[5]

    In realtà, M.L. King aveva giù usato la frase ‘I have a dream’ in altri discorsi: essa faceva parte del suo repertorio, era uno slogan per dire il suo progetto politico (idea, più che sogno). Ma perché cambiò quel testo, che pure aveva preparato con i suoi più stretti collaboratori?

    Accadde che tra i presenti vi era Mahalia Jackson, la più grande interprete di spirituals, detta “la regina del Gospel”. Era in prima fila, sotto il palco; M.L. King l’aveva già invitata a cantare all’inizio della marcia, e ad un certo punto, mente egli parlava, Mahalia gli gridò: «Digli del sogno, Martin, di’ loro del tuo sogno!». Chi aveva collaborato a redigere il discorso non se ne ebbe a male, si sapeva che Martin Luther e Mahalia erano amici: quando egli tornava stanco da qualche viaggio, capitava che la chiamasse e le chiedesse di cantargli una canzone al telefono.[6]

    Vocazione indefettibile, tra amici e nemici

    Un episodio merita di essere accostato, per contrasto, a quello appena narrato. Cinque anni prima, il 20 settembre 1958, in una libreria di Harlem, M.L. King stava autografando le copie del suo primo libro appena stampato. Una donna di colore, Izola Ware Curry, gli chiese se egli fosse davvero M.L. King e all’improvviso lo colpì al petto con un tagliacarte affilato. Una donna di colore! La ferita si rivelò grave: la lama si era fermata vicino all’aorta e dovette essere rimossa con un delicato intervento chirurgico. La donna fu poi diagnosticata come paranoica e venne internata in un manicomio criminale. Durante la degenza, M.L. King ricevette molte lettere da tutto il mondo. Gli scrissero, tra gli altri, il Presidente e il Vice-Presidente degli Stati Uniti. Ma ancor più lo colpì la lettera di una bambina bianca di nove anni, la quale si rallegrava che egli fosse salvo; aveva letto che se avesse starnutito mentre aspettava di essere operato, avrebbe potuto morire: «Ti scrivo solo per dirti che sono contenta che non hai starnutito.» Una giovanissima amica dalla pelle bianca: la lettera rappresentò moltissimo per M.L. King, come egli stesso raccontò anni dopo nel suo ultimo discorso, il giorno prima di venire assassinato. Ma, aggiungo, anche la scoperta di avere rischiato la vita per mano di una donna della sua stessa razza – cosa per lui impensabile fino a quel momento – dovette lasciargli una eco profonda. Infatti fu proprio durante la convalescenza che, trovandosi in regime di riposo forzato, egli decise di visitare l’India, come desiderava fare da tempo, avendo studiato Gandhi fin da giovane.[7] Vi andò con la moglie e un amico: «Noi tre eravamo una specie di squadra a tre teste, con sei occhi e sei orecchie per guardare e ascoltare». La partnership era la sua forza.

    In un certo senso tutte le personalità pubbliche fanno i conti con il pensiero della propria morte, sapendo di avere a che fare con i nemici della causa alla quale si sono votati, qualunque essa sia. Nel caso di M.L. King, però, questo dato si accentua: anzitutto la causa era proprio la resistenza non violenta, di cui Gandhi era stato il rappresentante più celebre in tutto il mondo (l’India deve a lui l’indipendenza politica); inoltre M.L. King non poteva avere messo in conto l’eventualità di subire un attentato proprio per mano di una donna della sua stessa razza. La psicopatologia è, come si direbbe oggi, trasversale: essa alberga ovunque e trascende i confini razziali, religiosi e politici. Non so quanti, prima o dopo Freud, abbiano osservato e compreso questo dato.

    Dunque la decisione di recarsi in India nel febbraio 1959 fu vocazionale in senso proprio:[8] M. L. King cercava altri compagni per far fronte alla propria vulnerabilità: le sue innegabili doti di retore, al confronto, sono assai meno decisive per comprendere le ragioni per cui ancora oggi egli è considerato, non a torto, il più grande “profeta” del XX secolo.[9]

    L’appuntamento con il/la partner.

    Tornando al discorso del 1963 a Washington, si trattò di improvvisazione, certo, ma solo in quanto M.L. King obbedì al suggerimento che gli veniva, fuori programma, da un’amica. Ma se le cose andarono così, perché la tesi del professor Grant non ha ricevuto obiezioni?  Si pensa – a torto – che ciò potrebbe comportare un “abbassamento” della figura del grande oratore di colore,[10] mentre a mio avviso l’episodio ne aumenta senza alcun dubbio la statura.[11]

    Ecco che cos’è un appuntamento: in una partnership ciascuno può prendere idee dall’altro. Le buone idee sono eccitamenti per il pensiero e chiamano all’obbedienza, addirittura la esigono. La creatività non c’entra nulla, salvo ripensarne daccapo il concetto.

     


    [*] Articolo pubblicato il 10 ottobre 2016 nella rubrica Father&Son del sito www.culturacattolica.it, a cura di E. Leonardi: http://www.culturacattolica.it/default.asp?id=516&id_n=39284

    [1] Martin Luther King Jr. (Atlanta 15 gennaio 1929, 4 aprile 1968) è stato un importante uomo politico statunitense, pastore battista e leader nella lotta per i diritti civili degli afroamericani. Ricevette il Premio Nobel per la pace nel 1964. Egli nacque con il nome di Michael King Jr. Nel 1934 suo padre, Michael King Sr., pastore battista e co-fondatore dell’American Civil Rights Movement, decise di cambiare il proprio nome e quello del figlio maggiore dopo un viaggio in Germania, in cui rimase fortemente impressionato dalla figura del riformatore Martin Luther.

    [2] Il Centro, la casa natale, la chiesa battista ed altri edifici sono stati riconosciuti Sito Storico Nazionale e sono amministrati dal National Park Service: https://www.nps.gov/malu/index.htm

    [3] Cfr. I have a Dream. Writings and Speeches that changed the World; edited by J.M. Washington, Foreward by Coretta Scott King, HarperCollins Publisher, NY, 1986, 1992.

    [5] «What about Martin Luther King, Jr.? The night before the biggest speech of his life, the March on Washington, he was up past 3am, rewriting it. He’s sitting in the audience waiting for his turn to go onstage, and he is still scribbling notes and crossing out lines. When he gets onstage, 11 minutes in, he leaves his prepared remarks to utter four words that changed the course of history: “I have a dream”. That was not in the script. By delaying the task of finalizing the speech until the very last minute, he left himself open to the widest range of possible ideas. And because the text wasn’t set in stone, he had freedom to improvise.» A. Grant, The surprising habits of original thinkers, TED Featured 2016, Filmed Feb 2016, Posted Apr 2016: https://www.ted.com/talks/adam_grant_the_surprising_habits_of_original_thinkers. A. Grant è professore di psicologia dell’organizzazione alla Wharton School of Business, University of Pennsylvania.

    [6] La Jackson accettava di incidere dischi soltanto di quel genere di musica, mentre rifiutava qualunque altra proposta.  Il suo rapporto con M.L. King è la storia di un’amicizia: un uomo e una donna che lavorano nella stessa direzione.

    [7] Per un approfondimento circa il rapporto tra il pensiero di M.L. King e quello di Gandhi, rinvio all’articolo, molto istruttivo e ben documentato, del prof. Enrico Peyretti:“Martin Luther King e Gandhi”, reperibile online a questo link: http://scienzaepace.unipi.it/old/index.php?option=com_content&view=article&id=588:martin-luther-king-e-gandhi&catid=14:pace-e–cammini-di-pace. Cito: “King non entrò mai a far parte di una organizzazione pacifista. Egli scrive ancora: «Dopo aver letto Niebuhr, cercai di arrivare a un pacifismo realistico. In altre parole, giunsi a considerare la posizione pacifista non senza peccato, ma come il minor male nelle attuali circostanze”. (Scienza e Pace, rivista del CISP, Università di Pisa, 8 maggio 2008).

    [8] M.L. King scrisse più di una pagina sulla sua idea di vocazione. Per farsi un’idea degli autori e dei concetti che formarono il suo pensiero politico è utile scorrere l’indice del libro citato nella nota 3: vi si trovano molti nomi di filosofi antichi e moderni, oltre che di letterati, teologi e politici.

    [9] Dal 1983 la città di New York celebra il terzo lunedì di gennaio il Martin Luther King Day, chiudendo tutte le scuole e promuovendo gesti di impegno civile fra i giovani. Dal 1993 la festività è riconosciuta in tutti gli Stati degli USA. Il recente film Selma – La strada per la libertà (della regista Ava DuVernay, USA, 2014) è un’onesta e toccante ricostruzione delle marce da Selma a Montgomery, grazie alle quali venne riconosciuto il diritto al voto della gente di colore nello Stato dell’Alabama. Nel film compare brevemente il discorso con cui M.L. King accettò il Nobel per la pace nel 1964. Annoto che la regista avrebbe potuto inserire il video originale, disponibile online, a mio avviso molto più efficace rispetto alla ricostruzione cinematografica: http://www.nobelprize.org/mediaplayer/index.php?id=1853

    [10] Debbo questa osservazione ad una conversazione con Luca Flabbi, da anni residente negli USA.

    [11] Circa il concetto di partnership, Gabriella Pediconi mi ha ricordato che andò così anche tra Freud e Ferenczi, almeno fino ad un certo momento. Quando Freud venne invitato alla Clark University nel 1909, fu accompagnato da Ferenczi e Jung. Ebbene, Freud non preparava niente di scritto di quello che avrebbe detto. Di fatto ogni lezione, scrive il suo biografo Jones, veniva preparata durante una mezz’ora di camminata con Ferenczi. Il loro rapporto, fino a quel momento, era ancora produttivo. Poi Ferenczi se ne ritrasse e Freud non poté che prenderne atto.
    Al tema dell’appuntamento è dedicato il Simposio di quest’anno della Società Amici del Pensiero “Sigmund Freud”: http://societaamicidelpensiero.it/wp-content/uploads/Q_2016_2017.pdf

  • Intraprendenti: padre e figlio nel film “La lunga estate calda” (1958)[1]

    La lunga estate calda

    L’occasione per riflettere su La lunga estate calda[2] è stata l’aver invitato amici e colleghi al cinema, il mese scorso, per festeggiare il mio sessantesimo compleanno. Ho proposto loro questo film a motivo dell’idea centrale che veicola e nonostante il fatto che lo stile in cui fu realizzato nel 1958 (quasi sessanta anni fa) appaia oggi datato. Tratto da tre opere letterarie di William Faulkner,[3] il film risulta completamente diverso da esse.

     

    L’IDEA CENTRALE…

    Procediamo con ordine. Il film mette in scena un passaggio generazionale coronato da successo, in cui un giovane non è figlio in senso biologico, ma diventa erede in forza della posizione che sa guadagnarsi, in un contesto familiare e sociale cui egli inizialmente è del tutto estraneo.

    Un cenno alla trama: «Ben Quick, un giovane con un passato di piromane, trova lavoro in una fattoria, conquistando la fiducia del padrone e, dopo qualche schermaglia, l’amore della figlia. Ma il figlio maschio, invidioso del favori paterni, cerca di farlo linciare dalla folla.» (Mereghetti).[4]  Immancabile l’happy end: per il cinema classico di quegli anni era d’obbligo. Eppure la semplicità della caratterizzazione dei personaggi è solo apparente: i dialoghi ce li mostrano dotati di una loro vita psichica, o pensiero:

    1)  Il protagonista Ben Quick, nome ebreo e cognome che significa “svelto”, ha coraggio da vendere, anche nella confessione finale in cui denuncia il falso stereotipo secondo cui le colpe dei padri ricadono sui figli. Per questa interpretazione Paul Newman vinse la Palma d’Oro a Cannes.

    2) Il padre-padrone Will Varner (un Orson Welles bizzoso e ingombrante) non è così orso e gretto come può sembrare, e non vede l’ora di associare a sé qualcuno che sappia proseguire e incrementare i suoi affari: possedimenti terrieri, emporio, banca, etc.

    3) Sua figlia Clara (Joanne Woodward) aspira all’unico destino che la società riserva a una giovane ventitreenne con un cognome importante, eppure non acconsente a sposare l’uomo cui il padre vuole maritarla finché il giovane non si mostra capace di compiere una mossa libera nei suoi confronti e tenere testa al “vecchio”.

    4) Jody Varner (Anthony Franciosa), il figlio, è meno rapa di quel che sembra, mentre patisce la concorrenza del nuovo arrivato fino a nutrire un pensiero omicida e parricida. Si riavrà in tempo, per tornare dalla sua bella Eula (Lee Remick).

    Il titolo, La lunga estate calda, allude sia alla fama di piromane da cui Quick tarda a liberarsi, sia alle pretese insopprimibili della vita sessuale, che in ciascuno dei protagonisti stenta a trovare una via soddisfacente.

    Quanto al romanzo da cui il film è tratto (The Hamlet), è sorprendente come il titolo (in italiano: villaggio o frazione) richiami invece il Principe di Danimarca, Amleto. Non so nulla circa la scelta shakespeariana del nome Hamlet, ma certo Faulkner, e poi gli sceneggiatori, non potevano ignorare il rinvio alla celebre tragedia e allo spettro del padre.

    … HA UNA FONTE EBRAICA

    Il film è frutto dell’affiatata collaborazione di affermati artisti e cineasti della Hollywood di quegli anni. Erano tutti ebrei: il regista Martin Ritt, il produttore Jerry Wald, gli sceneggiatori Irving Ravetch e sua moglie Harriet Frank J., e lo stesso Newman, che aveva ascendenze ebraiche in famiglia.[5]

    L’idea economica e propulsiva presente nel film, ma del tutto assente in Faulkner, è presto detta: un padre può compiacersi del figlio. Semplice. Eppure è un’idea che nella modernità è stata censurata e che, come tale, ha attraversato sottotraccia tutto il Novecento, fino ad essere un tabù ancora oggi. Al sessantaquattrenne Will Varner il giovane e intraprendente Ben Quick piace, da subito. E soprattutto nell’epilogo la storia si rivela più vicina al libro della Genesi che ad una commedia romantica: quando Quick sembra deciso a rompere, non senza ragione, il sodalizio con Varner, questi sbotta: «L’ho messo nel giardino dell’Eden, gli ho fatto inzuppare il suo pane nel miele… e lui ha avuto la faccia tosta di dirmi di no!»[6] Ecco un padre, ed ecco un tema che ebrei e cristiani farebbero bene a coltivare e rinnovare senza posa. Così fa G.B. Contri quando scrive: «‘Padre’ ha un significato se e solo se significa l’operare ereditario, ossia la fonte che fa erede un altro grande o piccino, maggiore o minore, che ne acquisisce possesso legittimo.»[7]
    Dall’altra parte, Ben Quick si presenta come un figlio esente da quelle obiezioni che Freud individua come tipiche del figlio maschio: la paura, l’arroganza e l’incredulità verso il padre.[8]

     

    … E UNO SPUNTO IN WILLIAM FAULKNER

    Non so che cosa avrebbe pensato Cesare Pavese se avesse potuto vedere La lunga estate calda. Ma non fu così: Pavese si tolse la vita nel ‘50, il film fu presentato a Cannes nel ‘58. Me lo chiedo perché egli tradusse e pubblicò nel ‘42 The Hamlet (Il borgo).[9] Il suo legame, o forse il debito, con Faulkner era intenso, a motivo di quella “trasfigurazione” che accomunava entrambi nel trattare la vita delle campagne che conoscevano bene: il cuneese e lo Stato del Mississippi.
    Mentre scrivo, ho davanti a me una locandina che accompagnò l’uscita del film negli USA. Traduco: “La gente di Faulkner, la lingua di Faulkner, il mondo di Faulkner!” Ma non è così.
    Un solo esempio: uno dei protagonisti del romanzo è il cinico Flem Snopes, capostipite di una genìa di mafiosi, un “mostruoso Benjamin Franklin”![10] Invece Ben Quick, che ne è la trasposizione nel film, sa coniugare intelligenza e affari. Il salto da Snopes a Quick è netto, il che significa che il giudizio degli ebrei di Hollywood sull’intera società statunitense era ben diverso da quello di Faulkner. Quest’ultimo denunciava nel romanzo “l’avarizia sposata alla pura animalità”,[11] mentre nel film non vi è alcuna animalità. Al contrario, il successo di Quick libera gli abitanti del borgo dal loro gretto provincialismo. Il passaggio generazionale narrato nel film addita a tutti la possibilità di uscire da quella psicologia del gruppo che conosce solo la giustizia del linciaggio. Pavese ne sapeva qualcosa: mentre lavorava alla traduzione di The Hamlet, dava alle stampe Paesi tuoi: brutta storia di un incesto in cui la vittima viene uccisa a forconate.[12]

    La mia ipotesi è che idea centrale de La lunga estate calda abbia una fonte ebraica e appena uno spunto in Faulkner.[13] Chi ha scritto, diretto, interpretato e prodotto questo film aveva qualcosa da dire e l’ha detto: a tutto il mondo e senza timidezze nei confronti dell’autore del romanzo, che pure ne ha tratto maggiore notorietà. Ben fatto.

     


    [1] Articolo pubblicato anche sul sito della Società Amici del Pensiero, www.societaamicidelpensiero.com, e nella rubrica Father&Son del sito www.culturacattolica.it.

    [2] The Long Hot Summer, USA 1958, colori, 117’, regia di Martin Ritt, con Paul Newman, Joanne Woodward, Anthony Franciosa, Orson Welles, Lee Remick, Angela Lansbury.

    [3] W. Faulkner (1897-1962) fu uno dei maggiori scrittori americani del secolo scorso e Premio Nobel per la letteratura nel 1949. Molti dei suoi romanzi e racconti sono ambientati nella contea immaginaria di Yoknapatawpha, nello Stato del Mississippi. Tra questi The Hamlet, Burn Burning e Spotted Horses, dai quali è tratto il film di Ritt. Segnalo l’interessante saggio introduttivo di R. Ceserani («Tre racconti giudiziari» di W. Faulkner) in Cavalli pezzati, Sellerio, 1997. Un commento a parte meriterebbero altre opere faulkneriane, come ad esempio As I Lay Dying (Mentre morivo, 1930), e Absalom! Absalom! (1936).

    [4] P. Mereghetti, Dizionario dei film, Baldini&Castoldi.

    [5] Non solo. Nello stesso anno un altro film era in produzione a Hollywood: La gatta sul tetto che scotta, anch’esso opera di un regista ebreo, Richard Brooks, che ne scrisse anche la sceneggiatura. Anche in questo caso ne risultò un film incentrato sul rapporto padre-figlio molto diverso dall’originale, l’omonima pièce teatrale di Tennessee Williams. Il film non piacque a Williams, mentre sembra che Faulkner abbia gradito il film di Ritt.

    [6] Dalla sceneggiatura in lingua originale: «I put him in the Garden of Eden, let him dip his bread in honey… and he’s got the all-out gall to tell me no!» Commovente la scena in cui Varner, che non ha discendenti perché la figlia e Quick non si relazionano “per automatismi”, commenta la nascita di un puledro: «Meno male che a casa mia qualcosa è nato!»

    [7] G.B. Contri, Padre, in: L’Ordine giuridico del linguaggio, Sic Edizioni, 2003.

    [8] S. Freud, Le prospettive future della terapia psicoanalitica (1910), in: Opere di Sigmund Freud, vol. VI, Bollati Boringhieri, pag. 200. Aggiungo che tra i ringraziamenti che ho ricevuto dopo la proiezione, vi è questa pertinente battuta di una mia giovane ospite: «Ad averne di padri che vogliono combinarti un matrimonio con un uomo così!»

    [9] W. Faulkner, Il borgo, trad. C. Pavese, Mondadori, 1942.

    [10] Th. G. Bergin, Dizionario Bompiani delle opere e dei personaggi, Bompiani, vol. I, 1983, pag. 519.

    [11] Ivi.

    [12] Non solo: sceneggiatori e regista hanno fatto piazza pulita di molti altri ingredienti del romanzo di Faulkner, cancellando ogni traccia di altri personaggi, come il povero idiota che fa sesso con una mucca, o la ragazzina dalle forme prorompenti descritta come un’autistica depravata, «immobile, priva apparentemente di pensiero». Via anche l’alone mistico intriso di mitologia greca, che non poteva appartenere alla vita e al lavoro dei contadini del Mississippi!

    [13] In un’intervista a tutto campo, pubblicata qualche anno fa sul Michigan Quarterly Review, gli sceneggiatori dichiarano che nel film vi è forse il dieci per cento dell’opera di Faulkner. Qui il link all’intervista: Hud: A Conversation with Irving Ravetch and Harriet Frank, Jr.

  • “And the winner is…” Il totem degli Oscar e Dustin Hoffman (1980)

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    Che cosa fa uno psicoanalista quando non siede dietro il divano? Va al cinema, o legge un libro, o fa altre cose che gli piacciono quanto ascoltare i suoi pazienti. Nel mio caso, amo vedere buoni film.
    Di recente, consultando il web in cerca di notizie su qualche film, mi sono imbattuto negli archivi dei “Premi Oscar”, rimanendo catturato dall’evento mediatico che fa gola ai cinefili di quasi tutto il mondo. Lì accade un po’ di tutto: un tripudio che sembra accomunare tutti i protagonisti del mondo hollywoodiano, dai più vecchi ai più giovani. Molti gli ingredienti di quella “magica” atmosfera: abiti elegantissimi o a dir poco stravaganti, acconciature costosissime e look che si impongono per la ricercatezza e i dettagli, ma anche performance inaspettate (il settantatreenne Jack Palance improvvisò sul palco una serie di flessioni su un solo braccio!) o irrefrenabili commozioni in cui non si riesce a distinguere quel che c’è di vero e quel che è frutto del mestiere.
    Americanate… Non solo o non sempre. Dustin Hoffman, per esempio, fa eccezione.
    Per cominciare, il lettore può dare un’occhiata a questo breve e divertente videoclip:(1)


    Che cosa combina Dustin Hoffman subito dopo aver ricevuto l’Oscar dalla splendida Jane Fonda?
    Accenna a sorridere, tace a lungo, poi prende in mano la preziosa statuetta la rimira… e l’appoggia nuovamente sul tavolino di cristallo.(2)
    Le prime parole sono una formidabile battuta di spirito, con cui sembra dirci che non abbiamo ancora ben capito quel che rappresenta veramente la mitica statuetta: «Non ha i genitali e tiene in mano una spada!». Còlti di sorpresa, tutti ridono. Un attimo di suspense, poi riprende e sorprende ancora: «Vorrei ringraziare i miei genitori perché non hanno praticato il controllo delle nascite.» Altra risata generale.
    Il breve discorso di poco dopo è invece molto serio: «Sono qui con sentimenti contrastanti. Sono stato critico nei confronti dell’Academy, e con ragione. Sono profondamente grato per l’opportunità di poter lavorare e molto onorato per essere stato scelto dal produttore Stanley Jaffe e dal regista Bob Benton, e per avere lavorato come in famiglia con loro…».
    La lezione non è finita: «Ci prendono in giro quando siamo qui, talvolta per ringraziare altri. Ma quando si lavora ad un film, si scopre che ci sono persone che danno il meglio di sé – la loro parte artistica – ben oltre lo stipendio; eppure non compaiono mai su questo palco. Molti di loro non sono Membri dell’Academy né abbiamo mai sentito parlare di loro. Ma questo Oscar è un simbolo, credo, ed è dato dall’apprezzamento di quanti ci votano senza che noi li vediamo. Anche costoro fanno parte della nostra vita.»
    Hoffman non smorza i toni, anzi: «Mi rifiuto di credere che ho battuto Jack Lemmon, che ho battuto Al Pacino, che ho battuto Peter Sellers. Mi rifiuto di credere che Robert Duvall abbia perso. Noi tutti siamo parte di una famiglia di artisti. Ci sono sessantamila attori in questa Academy – pardon – nella Screen Actors Guild,(3) e probabilmente un centinaio di migliaia in Equity.(4) E la maggior parte degli attori non lavorano, mentre pochi di noi sono così fortunati da avere la possibilità di lavorare ad un copione e con una regia. Perché quando sei un attore squattrinato non puoi scrivere, non puoi dipingere, ma devi solo fare esercizio con gli accenti mentre guidi un taxi. (…) A voi dico che nessuno di voi ha mai perso, e io sono orgoglioso di condividere questo premio con voi. E vi ringrazio.»

    Come a dire:
    1) premiandomi, mi dite che sono il migliore. Ma attenti: nessuno di noi può arrivare a questi risultati se non grazie all’apporto di tutta la troupe. E nessuno può vantarsi per avere battuto un collega, perché siamo tutti accomunati dalla medesima passione per la recitazione.
    2) so di essere un bravo attore, e lo so indipendentemente da questa buffa statuetta, che oltretutto rappresenta un tizio poco raccomandabile che, se mi fidassi di lui, finirebbe con il… tagliarmelo!»
    3) sono grato ai miei genitori, che mi hanno messo al mondo infischiandosene del controllo delle nascite!
    Un’ottima lezione su come distinguere il successo dal narcisismo, ancor più potente se si pensa che viene da qualcuno che ha imparato ad amministrare un’infinità di pensieri, affetti, posture e mimiche per interpretare alla perfezione ruoli e tipi umani così diversi tra loro: il “Sozzo” di Midnight Cowboy, il laureato sedotto dal fascino della donna matura, il maratoneta di Central Park, il giustiziere improvvisato de Il cane di paglia, il giornalista d’assalto di Tutti gli uomini del presidente, e ancora Tootsie, Capitan Uncino, l’autistico Rain Man o il commesso viaggiatore in preda alla demenza, e molti altri ancora!(5)
    E nessuna illusione circa l’essersi “fatto da sé”. Complimenti, caro Dustin.

    Avevo venticinque anni quando, dopo aver letto, tutto d’un fiato, Opinioni di un clown di Heinrich Böll,(6) accarezzavo l’idea di scrivere all’agente di Hoffman per proporgli di farne un film: nessuno come lui avrebbe saputo portare sullo schermo ciò che paralizza il protagonista dalla prima all’ultima pagina: l’ingenuità. La psicoanalisi insegna a riconoscerla come la buccia di banana che fa scivolare chiunque nella psicopatologia. Mi spiace non avere dato seguito a quell’idea. Ne dò notizia oggi che compio sessant’anni. Chissà che qualcuno non voglia raccoglierla.(7)

    Milano, 7 novembre 2015

     

    NOTE:
    1. Il video originale ha una durata di 8 minuti, di cui i primi 3 sono dedicati alle nominations. Qui è riprodotto dal momento in cui Jane Fonda lo proclama vincitore nella categoria “miglior attore protagonista” per il film Kramer contro Kramer (regia di Robert Benton), distribuito l’anno precedente e vincitore di ben cinque Oscar. Riporto per intero il discorso di Hoffman in lingua originale:
    «Thank you. [Inspects the Oscar.] He has no genitalia and he’s holding a sword. I’d like to thank my parents for not practicing birth control.
    I’m up here with mixed feelings. I’ve been critical of the Academy, and for reason. I am deeply grateful for the opportunity to be able to work. I am greatly honored for being chosen by the producer, Stanley Jaffe, and the director, Bob Benton, and to have worked in a family with them, and with Meryl and with Justin, who if he loses again we’ll have to give him a lifetime achievement award. And to Jane Alexander and to Jerry Greenberg and to Néstor and to the crew on the film who was part of that family. And to the crew and to the directors like Bob Fosse and Mike Nichols and John Schlesinger that I’ve worked with before. We are laughed at when we are up here, sometimes, for thanking. But when you work on a film you discover that there are people who are giving that artistic part of themself that goes beyond a paycheck, and they are never up here. And many of them are not members of the Academy, and we never hear of them. But this Oscar is a symbol, I think, and it is given for appreciation from those people whom we never see. They are part of our life.
    I refuse to believe that I beat Jack Lemmon, that I beat Al Pacino, that I beat Peter Sellers. I refuse to believe that Robert Duvall lost. We are a part of an artistic family. There are sixty thousand actors in this Academy – pardon me – in the Screen Actors Guild, and probably a hundred thousand in Equity. And most actors don’t work, and a few of us are so lucky to have a chance to work with writing and to work with directing. Because when you’re a broke actor you can’t write; you can’t paint; you have to practice accents while you’re driving a taxi cab. And to that artistic family that strives for excellence, none of you have ever lost and I am proud to share this with you. And I thank you.»
    (Fonte: Academy Awards Acceptance Speech database, http://aaspeechesdb.oscars.org/link/052-1/)
    2. Il valore commerciale della piccola scultura, alta 35 centimetri e placcata in oro 24 carati, si aggira intorno ai 300 dollari. Sembra che sia stata chiamata “Oscar” da una certa Margaret Herrik, Segretaria dell’Academy of Motion Picture Art and Sciences, la quale nel vedere la statuetta avrebbe esclamato: «Somiglia a mio zio Oscar!». E’ solo una delle tante leggende legate all’Academy Awards e al cinema hollywoodiano.
    3. Screen Actors Guild è un sindacato statunitense che rappresenta più di 150.000 attori di cinema e televisione.
    4. Equity è una organizzazione molto influente che si occupa di finanziamenti, agenzie, diritti di proprietà intellettuale, assicurazioni ed altro ancora a favore degli artisti che lavorano nel cinema e in TV.
    5. Dustin Hoffman, nato a Los Angeles nel 1937, ha interpretato almeno 50 film in 40 anni di carriera, vincendo due Premi Oscar (il secondo gli fu conferito per Rain Man nel 1989), numerosi Golden Globe, BAFTA e David di Donatello, nonché il Leone d’Oro alla carriera nel 1996. E’ anche doppiatore, regista e produttore per il cinema e la TV. Per noi italiani, fino alla metà degli anni ’90 la sua voce è stata quella, indimenticabile, di Ferruccio Amendola, poi deceduto.
    6. H. Böll, Opinioni di un clown, traduzione di Amina Pandolfi, Oscar Mondadori, 2001 (1963). Ringrazio Alberto Brasioli che mi fece conoscere questo affascinante e sferzante romanzo.
    7. In realtà, si tratterebbe di raccoglierla di nuovo: all’epoca non sapevo che nel 1976 un regista ceco, Vojtěch Jasný, aveva già realizzato il film Opinioni di un clown, che tuttavia rimase pressoché sconosciuto.