Freud ad Atene e quel disturbo della memoria sull’Acropoli

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«Dunque, quello che ci guastò la gioia del viaggio ad Atene fu un sentimento di “pietà filiale”.» (1)

Così Freud conclude una breve pagina autobiografica, Un disturbo della memoria sull’Acropoli: un bellissimo documento del suo modo di lavorare a partire da quel che osserva, anzitutto nella propria vita quotidiana. Essa è sempre e per ciascuno vita psichica (non esistono “fatterelli”). Qui è in primo piano il tema del rapporto con il padre: «È come se l’essenziale del successo consistesse nel fare più strada del padre, e che fosse tuttora proibito voler superare il padre (…)». E’ una questione che riguarda tutti, non soltanto chi si occupa professionalmente di psicoanalisi.

Il fatto (1904)
Freud era solito concedersi una lunga pausa estiva dal suo lavoro compiendo molti viaggi, spessissimo in Italia: non è esagerato dire che visitò il nostro Paese in lungo e in largo. Nel 1904 decise di trascorrere una settimana a Corfù in compagnia del fratello minore Alexander. Ma a Trieste, poco prima di imbarcarsi, un amico consigliò loro di evitare quell’isola, troppo calda in quei giorni, e di dirigersi invece ad Atene. Dapprima entrambi rimasero contrariati e incerti se prendere davvero il piroscafo per Atene. Ma dopo alcune ore si recarono tutti e due a cambiare i biglietti.
Così il 30 agosto s’imbarcarono per Brindisi e il 3 settembre raggiunsero Atene. Il suo biografo, E. Jones, racconta: «La mattina dopo trascorsero due ore sull’Acropoli: per la circostanza Freud aveva indossato la sua camicia più bella. Nello scrivere a casa raccontò che quella visita aveva superato qualunque altra esperienza che avesse mai fatto o immaginato prima (…). Più di vent’anni dopo ripeté che le colonne color ambra dell’Acropoli erano la cosa più bella che avesse mai visto in vita sua.» (2)
Questa visita fuori programma nel luogo più rappresentativo della civiltà greca classica, che egli ben conosceva e ammirava fin dagli anni liceali, produsse in lui un momentaneo disturbo della memoria (Erinnerungstörung): una curiosa esperienza sintomatica, di quelle che egli stesso aveva imparato ad apprezzare e a descrivere pochi anni prima in Psicopatologia della vita quotidiana (1901). Egli «fu colto da un senso di dubbio sulla realtà di ciò che aveva davanti agli occhi, tanto che stupì il fratello col chiedergli se si trovavano davvero sull’Acropoli». (3)

Trent’anni dopo (1936)
Nel gennaio 1936, Freud analizzò quell’episodio: «Quando poi il pomeriggio dopo l’arrivo mi trovai sull’Acropoli e abbracciai con lo sguardo il paesaggio, mi venne improvvisamente il pensiero singolare: “Dunque tutto questo esiste veramente, proprio come l’abbiamo imparato a scuola?!”»
Fu come sentirsi sdoppiato in due persone, una delle quali si interrogava sulla realtà delle proprie percezioni mentre l’altra, con meraviglia, ne «prendeva nota». Del resto, prosegue Freud, «vedere una cosa coi propri occhi è del tutto differente dal sentirne parlare o leggere». Di qui la sua incredulità: «Noi arriveremo a vedere Atene? Non è possibile, è troppo difficile. (…) Sarebbe stato così bello! (…) E’ un caso di “too good to be true” [troppo bello per essere vero], come ne incontriamo così frequentemente. (…) Un’incredulità di questo tipo è palesemente un tentativo di ricusare un frammento della realtà, ma qui c’è qualcosa di strano.» Non si sarebbe stupito se si fosse trattato di evitare un dispiacere, «ma perché una tale incredulità verso qualcosa che invece promette un intenso piacere? Un comportamento veramente paradossale!». Il caso è analogo a quel che accade a quanti «soccombono al successo» perché in preda al «senso di colpa o d’inferiorità che si può tradurre: “Non sono degno di tanta felicità, non la merito.»
Ed ecco spiegato il suo «sentimento di estraniazione» (Entfremdungsgefühl, parola già in uso nella psichiatria dell’epoca): (4) un fenomeno dovuto alla rimozione, «il più primitivo e fondamentale dei meccanismi di difesa, da cui ha preso l’avvio il nostro addentrarci nella psicopatologia.» In altre parole, la rimozione è un mezzo con cui la nevrosi impedisce di realizzare un fine avvertito come potenzialmente positivo, ma al tempo stesso foriero di un’oscura minaccia.
È precisamente quel che accadde a Freud di fronte alla prospettiva di spingersi fino ad Atene: «Viaggiare così lontano, “fare tanta strada”, mi appariva al di fuori di ogni possibilità. Questo era legato alla ristrettezze e alla povertà delle condizioni di vita nella mia famiglia quand’ero ragazzo. La mia brama di viaggiare era certamente anche un’espressione del desiderio di sfuggire a quella oppressione, affine all’impulso che spinge tanti adolescenti a scappare di casa. Da tempo sapevo con chiarezza che gran parte del mio piacere di viaggiare consisteva nell’appagamento di questi desideri giovanili, era cioè radicato nella mia insoddisfazione verso la casa e verso la famiglia».
Chi l’avrebbe detto? Freud, come Leopardi, non tollerava il natio borgo selvaggio.
Chi compie un passo che i propri genitori non si sono mai concessi «si sente come un eroe che ha compiuto incredibili prodezze.» Per sottolineare come in quel momento il suo pensiero fosse andato a suo padre, Freud riporta un episodio che aveva letto in una biografia di Napoleone Bonaparte: nel 1805, prendendo in mano la corona ferrea per cingersi il capo, il nuovo Imperatore si era rivolto al fratello chiedendogli: “Cosa direbbe Monsieur notre père, se potesse essere qui adesso?”. Nel momento del massimo successo, ecco il desiderio di avere il padre al proprio fianco.

Quel che ci riguarda
Quando scrisse questa pagina, Freud aveva ormai ottant’anni. Due anni dopo si lasciò convincere a lasciare Vienna alla volta di Londra per sfuggire alle crescenti persecuzioni del nazismo (l’Anschluss avvenne nel marzo 1938). Ebbene, nella notte in cui attraversava la Manica, sognò di sbarcare in Inghilterra: non a Denver, dove era diretto, bensì a Pevensey, la località in cui era approdato nel 1066 Guglielmo il Conquistatore. Freud, vecchio e malato, nel sogno addirittura veste i panni di Guglielmo il Conquistatore! (5)
Nel finale della lettera a Rolland leggiamo: «Nostro padre era un mercante, non aveva una formazione umanistica, e Atene non poteva significare molto per lui. Dunque, quello che ci guastò la gioia del viaggio ad Atene fu un sentimento di “pietà filiale”». Freud sa che non vi sarebbe stato alcun bisogno di provare un simile affetto per il padre mentre ne oltrepassava l’orizzonte. Ma sa anche quanto sia problematico per chiunque questo passaggio, a motivo dell’idealizzazione, per cui ogni genitore dovrebbe essere sempre perfetto e infallibile: «un senso di colpa resta legato alla soddisfazione di avere fatto tanta strada; c’è qualcosa di illecito in questo, di proibito fin dall’età più lontana. Tutto ciò ha a che fare con la critica del bambino verso il padre, con il disprezzo che ha sostituito la sopravvalutazione infantile della sua persona».
In realtà, la costante elaborazione intorno al tema del padre gli consentì di procedere speditamente e con determinazione, nella vita come nella professione, raccogliendo tutto quel che poteva raccogliere dal padre, come pure dai maestri, dai pazienti, etc. Questa è la via inaugurata dalla psicoanalisi: una via che non comporta affatto il parricidio, come a torto si ritiene. (6)
A mia volta, non mi tratterrò dal formulare a questo proposito una critica a Cesare L. Musatti, figura centrale nella storia della psicoanalisi nel nostro Paese. Debbo al suo Trattato di psicoanalisi, (7) che lessi con entusiasmo a quindici anni, la mia prima conoscenza di Freud. Tuttavia ora mi accorgo che nelle poche righe dedicate alla lettera a Rolland, egli non seppe o non volle coglierne compiutamente il senso. Per Musatti, questo breve saggio «presenta particolare interesse per la storia personale di Freud e per determinati suoi conflitti e complessi» (corsivi miei): (8) uno scorcio biografico curioso, ma privo di vero interesse per la scienza psicoanalitica. Come ha potuto censurare in questo modo la centralità del tema del padre? In realtà, Freud non fa che illustrare e ribadire che il punto cruciale è precisamente e nient’altro che il complesso paterno. (9)

NOTE
1. S. Freud, Un disturbo della memoria sull’Acropolilettera aperta a Romain Rolland (1936), OSF vol. XI, Bollati Boringhieri, pagg. 473-481. Le citazioni successive sono tratte dalla medesima edizione. Romain Rolland era uno scrittore francese di dieci anni più giovane di Freud, col quale egli fu in corrispondenza. La lettera aperta fu scritta in occasione del suo settantesimo compleanno.
2. E. Jones, Vita e opere di Freud, Il Saggiatore, 1962; Garzanti, 1977 (3 voll.), vol. 2, pag. 41. E’ significativo che nel movimento psicoanalitico, ad eccezione di queste poche righe di Jones, le prime pubblicazioni intorno a questo saggio siano comparse solo a partire dalla seconda metà degli anni ’60.
3. Ibidem.
4. Freud accosta senza mezzi termini questo fenomeno allo svenimento e alla “doppia coscienza”, nella quale può accadere persino di fare qualcosa senza sapere che cosa si sta facendo.
5. E. Jones, op. cit. vol. 3, pagg. 273-4.
6. Ritengo che in questo modo Freud preparò la via all’ulteriore elaborazione proposta recentemente da Giacomo B. Contri ne Il pensiero di natura, Sic Edizioni, 1994, 3^ ed. 2006.
7. C. L. Musatti, Trattato di psicoanalisi, 2 voll., Edizioni Scientifiche Einaudi, 1950, 1953.
8. C.L. Musatti, Introduzione, OSF, Vol. XI, Bollati Boringhieri, p. XVII. Segnalo che anche il voluminoso carteggio tra Freud e Jung può e deve essere letto come un lungo e accorato dibattito su questo stesso tema, fino alla rottura senza ritorno del discepolo zurighese su cui Freud aveva riposto le maggiori speranze e aspettative.
9. Nella stesura di questo articolo mi sono avvalso degli appunti redatti in occasione dell’incontro che ho promosso nel maggio scorso presso il Freud Museum di Londra, il cui tema era: «Che cosa significa che il padre è un concetto?». Venticinque i partecipanti, tra colleghi e amici della Società Amici del pensiero «Sigmund Freud». Dopo la visita, abbiamo assistito a The Lion King, la cui trama è imperniata sul rapporto padre-figlio. Rinvio a: “The Lion King”: non solo musical, pubblicato in questa stessa rubrica il 4 novembre 2012: http://www.culturacattolica.it/default.asp?id=516&id_n=31789

Questo articolo è stato pubblicato il 29/09/2015 sul sito http://www.culturacattolica.it

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